“Abbiamo nascosto un localizzatore GPS nei vestiti di Amazon, Temu e Shein”: ora sappiamo cosa succede con la fast fashion

Si chiama fast fashion e sta ad indicare che passano appena 15 giorni dall’ideazione alla messa in commercio di un capo di abbigliamento. La puntata di ieri sera, 11 febbraio, di Report (Rai3) si è concentrata sul modello di business più inquinante di sempre: la moda usa e getta

Dal bozzetto dello stilista al capo di abbigliamento, in stock, acquistabile online o in tutti i negozi del mondo, trascorrono appena 15 giorni: con l’interessantissima inchiesta “Giralamoda” ieri sera Report, in onda su Rai 3, ci ha portati nel devastante mondo (e ancora troppo poco conosciuto) dell’ultra fast fashion. Abiti venduti e resi più di una volta e pacchi di vestiti che viaggiano tra l’Europa e la Cina, senza costi per l’acquirente e con spese irrisorie per l’azienda produttrice, ma con enormi danni ambientali.

Un argomento di cui noi di GreenMe ci siamo sempre occupati, almeno da quando la strage del Rana Plaza – edificio commerciale di otto piani nel cuore del Bangladesh – portò a galla gli orrori subiti da chi è costretto a lavorare in turni massacranti per confezionare i nostri vestiti. Quei lavoratori, uomini e soprattutto donne, erano alle prese con vestiti che presto sarebbero finiti nei nostri armadi: Mango, H&M, Benetton, Primark per dirne alcuni. E poi immediatamente gettati.

Leggi anche: Temu e Shein: ti svelo tutte le tattiche acchiappa-clienti della fast fashion (che potrebbero diventare ancora più aggressive)

Sono loro i simboli della fast fashion, quel tipo di moda carnivora che punta alla produzione di abiti di bassa qualità e a venderli a prezzi bassissimi, tra un lancio e l’altro di nuove collezioni in tempi brevissimi.

Sulle politiche della fast fashion e su che fine fanno i nostri abiti usa e getta si è concentrato ieri sera il programma d’inchiesta condotto da Sigfrido Ranucci.

“Giralamoda” e il rapporto di Greenpeace

Come detto, Report di domenica 11 febbraio ha dedicato ampio spazio all’industria della fast fashion che negli ultimi 20 anni ha raddoppiato la produzione e moltiplicato le collezioni, grazie al reportage di Lucia Paternesi.

Dopo la pandemia, lo shopping online ha fatto schizzare le vendite, a diminuire è solo il ciclo di vita degli indumenti: si gettano via i vestiti dopo averli indossati appena una manciata di volte. Il modello di business dell’industria del fast fashion si basa su produzioni low cost e su spedizioni e resi gratuiti. Tutto è gratis, si paga solo ciò che si tiene. Ma che fine fanno i vestiti che rimandiamo indietro?

Insieme a Greenpeace, Report ha provato a seguire in una MAPPA i resi e i risultati di questa indagine sono allarmanti: quasi 100mila chilometri in tutta Europa senza neanche trovare un cliente disposto a comprarli.

Tutti i risultati dell’inchiesta, anticipati in parte nella trasmissione di Report andata in onda ieri sera su Rai 3, sono stati pubblicati da Greenpeace Italia in un rapporto dal titolo “Moda in viaggio. Il costo nascosto dei resi online: i mille giri del fast-fashion che inquina il pianeta”.

Il rapporto di Greenpeace

Per condurre l’indagine, sono stati acquistati 24 capi d’abbigliamento del fast-fashion sulle piattaforme e-commerce di otto tra le principali aziende del settore:

  • Amazon
  • Temu
  • Zalando
  • Zara
  • H&M
  • OVS
  • Shein
  • ASOS

Prima di effettuare i resi, Greenpeace e Report hanno nascosto un localizzatore GPS in ogni vestito, riuscendo così a tracciarne gli spostamenti, scoprire il mezzo di trasporto usato e studiare la filiera logistica dei venditori.

In 58 giorni, i pacchi hanno percorso nel complesso circa 100 mila chilometri attraverso 13 Paesi europei e la Cina. Mediamente, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km. Il mezzo di trasporto più usato è risultato il camion, seguito da aereo, furgone e nave. I 24 capi di abbigliamento sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte, con una media di 1,7 vendite per abito, e resi per ben 29 volte. A oggi, 14 indumenti su 24 (pari al 58%) non sono ancora stati rivenduti.

Esaminando le singole aziende, tutti i capi di abbigliamento di Temu sono stati spediti dalla Cina, hanno percorso oltre 10 mila chilometri (principalmente in aereo) e, a oggi, nessuno risulta rientrato nelle disponibilità del venditore dopo il primo reso. Due capi di abbigliamento di ASOS hanno viaggiato, in media, per oltre 9 mila chilometri transitando per ben 10 Paesi europei. ASOS, Zalando, H&M e Amazon sono in cima alla classifica per numero medio di rivendite: 2,25 volte. Mentre il 100% dei capi resi a Temu, OVS e Shein non è ancora stato rivenduto.

La nostra indagine conferma come la facilità con cui si possono effettuare i resi nel settore del fast-fashion, quasi sempre gratuiti per il cliente, generi impatti ambientali nascosti e molto rilevanti», dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Mentre alcune nazioni europee hanno già legiferato per arginare o evitare il ricorso alla distruzione dei capi d’abbigliamento che vengono resi al venditore, lo stesso non può dirsi per la pratica dei resi facilitati, che incoraggia l’acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il pianeta.

Le emissioni della fast fashion

La collaborazione con la start up INDACO2 ha infatti consentito di stimare anche le emissioni prodotte dal trasporto e dal packaging dei capi d’abbigliamento: l’impatto ambientale medio del trasporto di ogni ordine e reso corrisponde a 2,78 kg di CO2 equivalente, emissioni su cui il packaging incide per circa il 16%.

In media, per il confezionamento di ogni pacco sono stati usati 74 g di plastica e 221 g di cartone. Prendendo come esempio l’impatto di un paio di jeans (del peso medio di 640 g), il trasporto del capo ordinato e reso comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di CO2. Il costo medio del carburante per il trasporto, d’altra parte, è stimato in 0,87 euro.

Quanto è insostenibile il mondo del fast fashion?

A rivelarlo è sempre Report con il reportage “Seconda mano”: dal 2023 il Ghana è la discarica più grande al mondo di vestiti usati. Ne arrivano 15 milioni ogni settimana producendo da una parte un filo di economia per la popolazione locale, dall’altra un’immane catastrofe ambientale.

Ne parliamo anche noi qui: Nuota per 40 giorni nel fiume Volta: l’impresa di una giovane attivista per mostrare il lato oscuro della fast-fashion in Ghana

 

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Per un Paese di 32 milioni di abitanti rappresenta un mercato importante, ma il Ghana spende circa 4 milioni di dollari all’anno per raccogliere ed eliminare i rifiuti. Non ce la fa a smaltire i vestiti, che si usurano nell’ambiente fino a formare la discarica più grande del mondo.

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