Queste dolci e commoventi poesie di Pablo Neruda sono lettere d’amore ai nostri cani

Pablo Neruda amava i cani tanto quanto il mare e la libertà. L'ha lasciato inciso in due bellissime poesie che condividiamo con voi: "Un cane è morto" e "Ode al cane". I loro versi, commoventi e sublimi, sono lettere d’amore ai nostri amici pelosi

“Ahi quante volte volli avere coda”, si legge in un poema di Pablo Neruda. Il motivo è che nel cuore del poeta cileno e premio Nobel per la letteratura c’era uno spazio speciale riservato ai nostri amici pelosi. Diverse sono le opere letterarie in cui confessa il suo amore, il rispetto e l’ammirazione non solo per i cani, ma anche per tutti gli animali.

Pablo Neruda e i suoi cani

©Fundación Pablo Neruda

Negli anni, Neruda ha condiviso viaggi, dolori, gioie e persino l’esilio con diversi animali. Calbuco, Cutaca, Donegal, Panda, Niebla, Chu-Tuh e Nyon sono alcuni dei suoi migliori amici che l’hanno accompagnato durante tutta la sua vita. Amava guardarli e adorava la loro compagnia, il loro carattere, la loro cordialità e la loro libertà. Per questo non gli piacevano i guinzagli. L’anima del cane doveva essere libera di poter scodinzolare la propria coda ovunque.

Pablo Neruda al mare con cane

©Fundación Pablo Neruda

Tanti gli aneddoti che si raccontano sul suo rapporto con questi magnifici esseri. Si dice – ad esempio – che quando Neruda sposò la cantante e scrittrice cilena Matilde Urrutia, l’unico testimone al matrimonio fu il suo cane Nyon, e che l’ultimo sguardo canino che vide fu quello del suo Chu-Tuh che, mentre lo trasportavano in barella verso l’ambulanza, si avvicinò e gli leccò la mano per l’ultima volta.

©Fundación Pablo Neruda

Sul dolore della perdita di un amico a quattro zampe, Neruda scrisse questo poema sublime. Perché si sa, non ci sarà mai un addio per un cane che è nei nostri cuori:

Un cane è morto

Il mio cane è morto.
Lo sotterrai nel giardino
insieme ad una vecchia macchina ossidata.

Lì, non più sotto,
ne più sopra,
si unirà con me un giorno.

Ora ormai se ne è andato col suo pelame,
la sua maleducazione, il suo naso freddo.

Ed io, materialista che non crede
nel celeste cielo promesso
per nessun umano,
per questo cane o per ogni cane
credo nel cielo, sì, credo in un cielo
dove io non entrerò, però lui mi attende
ondulando la sua coda di ventaglio
perché io al giungere abbia amicizie.

Ahi, non dirò la tristezza sulla terra
di non averlo più per compagno
perché mai fu per me un servitore.
Ebbe verso me l’amicizia di un riccio
che conservava la sua sovranità,
l’amicizia di una stella indipendente
senza più intimità dell’essenziale,
senza esagerazioni:
non si arrampicava al mio vestiario
coprendomi di peli o di acari,
non strofinava contro il mio ginocchio
come altri cani ossessivi.

No, il mio cane mi guardava
dandomi l’attenzione necessaria,
l’attenzione necessaria
a far comprendere a un vanitoso
che essendo cane lui,
con quegli occhi, più puri dei miei,
perdeva il tempo, ma mi guardava
con lo sguardo che mi riservò
tutta la sua dolce, la sua pelosa vita,
la sua silenziosa vita,
vicino a me, senza mai importunarmi,
e senza chiedermi nulla.

Ahi quante volte volli avere coda
andando unito a lui per le rive
del mare, nell’Inverno di Isla Negra,
nella grande solitudine: in alto l’aria
trapassata di uccelli glaciali
e il mio cane che saltava, irsuto, colmo
di voltaggio marino in movimento:
il mio cane vagabondo e fiutante
inalberando la sua coda dorata
fronte a fronte all’Oceano e alla sua spuma.

Allegro, allegro, allegro
come i cani sanno essere felici,
senza nient’altro, con la tirannia
della natura sfrontata.
Non c’è addio al mio cane che è morto.

E non c’è né ci fu menzogna tra di noi.
Già se ne andò e lo interrai, e questo era tutto.

Ma non è l’unica poesia che Neruda, all’anagrafe Neftali Ricardo Reyes Basoalto ci ha lasciato: 

“Ode al cane”

Il cane mi domanda
ed io non rispondo.
Salta, corre pei campi e mi domanda
senza parlare
ed i suoi occhi
son due domande umide, due fiamme
liquide interroganti
ed io non rispondo,
non rispondo perché
non so e nulla posso dire.
In mezzo ai campi andiamo
uomo e cane.
Luccicano le foglie come
se qualcuno
le avesse baciate
ad una ad una,
salgono dal suolo
tutte le arance
a collocare
piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte e verdi,
ed uomo e cane andiamo
fiutando il mondo, scuotendo il trifoglio,
pei campi del Cile,
fra le limpide dita di settembre.
Il cane si arresta,
corre dietro api,
salta l’acqua inquieta,
ascolta lontanissimi
latrati,
orina su una pietra
e porta la punta del suo muso
a me, come un regalo.
Tenera impertinenza
per palesare affetto!
E fu a quel punto che mi chiese,
con gli occhi,
perché ora è giorno,
perché verrà la notte,
perché la primavera
non portò nel suo cesto
nulla
per cani vagabondi,
ma inutili fiori,
fiori ed ancora fiori.
Questo mi chiede
il cane
ed io non rispondo.
Andiamo avanti,
uomo e cane, appaiati
dal mattino verde,
dall’eccitante vuota solitudine
in cui solo noi
esistiamo,
questa coppia di un cane rugiadoso
ed io poeta del bosco,
perché non esistono
uccelli o fiori nascosti,
ma profumi e gorgheggi
per due compagni,
per due cacciatori compagni:
un mondo inumidito
dalle distillazioni della notte,
un tunnel verde e poi
una prateria,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
respira, cresce,
e l’antica amicizia,
la gioia
d’esser cane e d’esser uomo
tramutata
in un solo animale
che cammina movendo
sei zampe
ed una coda
con rugiada.

Pablo Neruda, il poeta che amava i cani.

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Fonte: Fundación Pablo Neruda

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