Chernobyl, a 37 anni dal disastro lo stesso tipo di reattore è ancora attivo in molte centrali della Russia

Crolli, esplosioni, malattie da radiazioni, danni permanenti. Tutto rappresenta l’incubo generale che permea la cultura moderna da 4 decenni a questa parte, come risultato di ciò che è accaduto in Ucraina nel 1986. Ma se pensavamo che quei tipi di reattori lì fossero una cosa del passato, ci sbagliavamo di grosso

La data del 26 aprile 1986 è oramai nella memoria collettiva come uno dei peggiori giorni della storia umana. Un disastro, quello di Chernobyl avvenuto 37 anni fa, che potrebbe anche fungere da preziosa annotazione dei pericolosi rischi connessi alla gestione dell’energia nucleare. Ma abbiamo imparato qualcosa? Poco o nulla.

Anche quasi 40 anni dopo il più devastante incidente nucleare di sempre, il reattore di classe reaktor bolshoy moshchnosti kanalny (RBMK) non è una reliquia di un lontano passato. Nel 2023, 7 sono ancora in funzione.

Il reattore 1 di Kursk I è sì stato chiuso un anno fa, ma altri 7 vecchi RBMK continuano a operare in tutta la Russia, mentre due reattori simili ai RBMK-1500 erano stati costruiti nella centrale nucleare di Ignalina, in Lituania, e poi dismessi perché ritenuti troppo vecchi e pericolosi dall’Unione europea.

I RBMK

Nei RBMK, reactor bolshoi moshchnosty kanalny, ovvero i “reattori di grande potenza a canali”, si trova tutta la tecnologia e il funzionamento della centrale nucleare di Chernobyl, dove fu poi palese che i deficit costruttivi e operativi furono forzati per aumentarne il rendimento. Gli Rmbk furono al cuore del programma energetico-nucleare sovietico, il cosiddetto “Atom Mirny” (ebbene sì: “atomi per la pace”), il cui scopo, però, non era solo quello civile: furono infatti anche utilizzati per produrre plutonio e costruire testate atomiche a fissione o il nucleo, cioè l’innesco, di bombe a fusione termonucleare.

I reattori Rbmk sono raffreddati ad acqua in pressione che scorre in canali e la reazione di fissione viene moderata da barre di grafite, che fungono da “pedale controllo dell’acceleratore”. Queste, a seconda di quanto siano inserite nel nucleo, controllano la fissione del combustibile nucleare, ovvero uranio naturale (arricchito a un livello modesto). Proprio perché non hanno bisogno di uranio fortemente arricchito, hanno deu costi di costruzione e gestione inferiori, pur riuscendo a generare molta energia. Tutto questo, però, al netto del fatto che i reattori Rbmk avevano difetti di instabilità dovuti al cosiddetto “coefficiente di vuoto positivo“: all’aumentare della temperatura, la reazione nucleare anziché ridursi, aumenta.

Come se non bastasse, il reattore di Chernobyl aveva anche dei difetti di progettazione delle barre di controllo e la centrale non aveva un vero e proprio sistema di protezione, se non una armatura di cemento che proteggeva la struttura metallica del contenitore principale, stagno e riempito di gas inerte per impedire alla grafite, che nel reattore può arrivare a circa 700 gradi, di entrare in contatto con l’ossigeno e produrre una reazione chimica esplosiva. Che però avvenne. In seguito al disastro di Chernobyl furono introdotte modifiche, tra le quali l’innalzamento del livello di arricchimento del combustibile da 2 al 2,4% per aumentare la stabilità e l’effetto di moderazione offerto dall’acqua e dalla grafite.

I RBMK-1000 impiegati dalla centrale nucleare di Kursk sono più o meno gli stessi di quelli di Chernobyl dal 1977. Anche se il primo è stato chiuso, i restanti reattori, da due a quattro, continueranno a funzionare almeno fino al 2030.

È comprensibile rimanere inorriditi sapendo che altri potenziali disastri di Chernobyl sono ancora vivi e vegeti nel 2023, ma – lasciano considerare gli esperti – tra il 1986 e il 2023, ci sono stati esattamente zero incidenti di fissione supercritica in nessuno dei RBMK in funzione dopo il fatidico incidente in Ucraina.

Un dato che ci basta? Anche no.

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