Il cioccolato amaro al sapore di schiavitù e di sfruttamento minorile

Non tutti i bambini hanno apprezzato il cioccolato che abbiamo felicemente consumato durante le festività natalizie e che stanotte riempirà migliaia e migliaia di calze della Befana. Questa eterna e gustosa prelibatezza nasconde, infatti, un ingrediente segreto, dal sapore davvero amaro, che sa di schiavitù e di sfruttamento. Il settore del cioccolato, nonostante le intese, i protocolli e le dichiarazioni di buoni intenti, occupa ancora tantissimi minori nelle piantagioni di cacao, vittime di una vera e propia “tratta” che, secondo alcune stime, ne coinvolgerebbe più di 200 mila, di età compresa tra i cinque e i quindici anni.

Non tutti i bambini hanno apprezzato il cioccolato che abbiamo felicemente consumato durante le festività natalizie e che stanotte riempirà migliaia e migliaia di calze della Befana. Questa eterna e gustosa prelibatezza nasconde, infatti, un ingrediente segreto, dal sapore davvero amaro, che sa di schiavitù e di sfruttamento. Il settore del cioccolato, nonostante le intese, i protocolli e le dichiarazioni di buoni intenti, occupa ancora tantissimi minori nelle piantagioni di cacao, vittime di una vera e propia “tratta” che, secondo alcune stime, ne coinvolgerebbe più di 200 mila, di età compresa tra i cinque e i quindici anni.

Pagati appena un pugno di dollari, questi moderni schiavi vengono dal Benin, dal Togo, dal Ghana, dalla Nigeria, dal Camerun, dal Burkina Faso, dalla Costa d’Avorio. Sono coperti di cicatrici, segni evidenti delle frustate e delle percosse a cui sono sottoposti, vestiti di stracci, rinchiusi in veri e propri lager, dove si dorme in baracche fatiscenti con porte e finestre sbarrette dall’esterno. Sono i bambini che il cioccolato non lo mangiano, lo raccolgono.

Così, dieci anni dopo il protocollo Harkin-Engel, firmato dall’industria del cioccolato nel 2001 per cercare di fermare questa moderna schiavitù, nulla è cambiato e resta ancora tutto da fare. Eppure sono passati più di 10 anni da quando l’articolo “A Taste of Slavery”, di Sudarsan Raghavan e Sumana Chatterjee, pubblicato dal Knight Ridder Newspaper, diede vita allo scandalo che portò al protocollo. Avevano raccontato all’America e al mondo, con immagini scioccanti e inequivocabili, come le grandi compagnie del cacao usassero i bambini per la raccolta del cacao trattandoli come schiavi, di come Aly Diabate, un piccolo malese di 12 anni, fosse stato convinto da un mercante di schiavi, detto “Le Gros” (Il Grosso), a lavorare nelle piantagioni. Gli aveva promesso una bicicletta e 150 dollari all’anno. Non arrivarono mai. Arrivarono invece le fatiche, il duro lavoro, dalle sei di mattina alle 18.30, le sevizie, le torture, le botte. “Non so cosa sia il cioccolato” raccontò Aly ai reporter. Lui ne conosceva solo i semi e la pianta, non il prodotto lavorato.

Quel dossier finì dai giornali al Congresso americano, che costrinse le multinazionali del cacao, da Nestlè a Hershey’s, fino alla M&M, già balzata all’onore delle cronache per la sperimentazione animale, a firmare l’accordo con cui si impegnavano a non usare più bambini come schiavi entro il 2005 e ad apporre l’etichetta “slave-free”, per certificare che i loro prodotti non provenissero da piantagioni dove venivano impiegati bambini in schiavitù. Ma ottennero una proroga fino al 2008. Poi, nel 2008, ne ottennero un’altra fino al 2010.

Recentemente un team di ricercatori della Tulane University, New Orleans, Stati Uniti, su incarico del Congresso americano, ha rilasciato un ennesimo dettagliato rapporto (clicca qui per scaricare il pdf) sull’uso di bambini nelle piantagioni di cacao, in particolare in Ghana e Costa d’Avorio, che con il 60% della produzione globale sono i più grandi produttori di cacao al mondo . Un’altra relazione shoccante. Ben la metà dei bimbi provenienti da famiglie contadine lavora nell’agricoltura, spiega il dossier. E, tra loro, una percentuale tra il 25% e il 50% è utilizzata nelle piantagioni di cacao.

Questi non-bambini vengono costretti a trasportare carichi troppo pesanti sulle spalle, che danneggiano le colonne vertebrali, usano attrezzi pericolosi con cui spesso si feriscono, come il machete, respirano giornalmente tutte le sostanze chimiche utilizzate nelle piantagioni. Ma i fabbricanti di cioccolato continuano a nascondersi dietro al cofinanziamento di progetti pilota che hanno lo scopo di modificare le pratiche dei contadini, senza che essi debbano modificare le proprie. Operazioni che hanno il sapore di uno squallido greenwashing sociale.

Per contrastare tutto ciò, un gruppo di ONG di tutto il mondo, da International Labor Rights ForumGeneral Coordination, a Stop the traffik, ha lanciato, nauseato dalla falsità e dall’iniquità, la 10 Campaign, un’iniziativa che vuole denunciare il fallimento del decennio del protocollo. Ma che è anche l’inizio di una offensiva più aggressiva contro governi e le imprese dei paesi importatori di cacao e le imprese.

Perché fin quando l’industria non sarà disposta a cambiare le proprie pratiche commerciali e a pagare i prezzi corretti ai contadini, questi progetti non potranno mai raggiungere gli obiettivi di sostenibilità che si sono posti.

È qui che entra in campo il consumatore, che deve saper acquistare con consapevolezza, domandandosi se nel prodotto che compra c’è una componente di sfruttamento, e scegliendo prodotti del commercio equo e solidale, basati non sulla produzione di massa, ma sul concetto di qualità. Prima che, tra l’altro, questo alimento, tanto caro persino ai Maya, diventi un bene di lusso inaccessibile a causa del cambiamento climatico.

Stasera, allora, quando sarà il momento di riempire amorevolmente le calze per i fortunati bambini italiani, facciamolo con prodotti che abbiano tutto lo squisito gusto dell’equità, libero da qualsiasi ingrediente amaro.

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Roberta Ragni

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