Da Armani a Benetton: tutti i colossi della moda europei che sfruttano i lavoratori in Romania

In Romania i salari sono da fame, meno di un sesto ne ha uno dignitoso, eppure il paese continua ad essere il più grande produttore d’abbigliamento in Europa. A denunciare le condizioni di vita dei lavoratori e i costi irrisorio della manodopera è il nuovo rapporto della Campagna Abiti puliti.

In Romania i salari sono da fame, meno di un sesto ne ha uno dignitoso, eppure il paese continua ad essere il più grande produttore d’abbigliamento in Europa. A denunciare le condizioni di vita dei lavoratori e i costi irrisorio della manodopera è il nuovo rapporto della Campagna Abiti puliti.

Una disparità salariale tra Romania e altri paesi europei in cui Bucarest non garantisce paghe dignitose, costringendo così i familiari degli assunti nel settore tessile a cercare fortuna fuori dai confini nazionali.

Il rapporto della Clean Clothes Campaign dedicato alla Romania analizza la situazione negli ultimi sei anni: quasi mezzo milione di persone lavora nell’industria della moda rumena, la maggiore forza lavoro di questo settore in Europa.

Il made in Romania viene esportato in Italia, Regno Unito, Spagna, Francia, Germania e Belgio.

“I marchi rilevati durante le indagini spaziano da discount e aziende di fast fashion a marchi del lusso di alta gamma, tra cui Armani, Aldi, Asos, Benetton, C&A, Dolce & Gabbana, Esprit, H&M, Hugo Boss, Louis Vuitton, Levi Strauss, Next, Marks & Spencer, Primark e Zara (Inditex)”, si legge in una nota stampa della campagna.

Nel paese ci sono quasi 10mila fabbriche e lavoratori in cui la paga media dei lavoratori intervistati per un orario di lavoro regolare è pari solo al 14% del salario dignitoso. Contrariamente alla legge, una cifra spesso inferiore al salario minimo legale, che di per sé costituisce comunque solo il 17% del salario vivibile.

Sempre secondo i lavoratori, si legge nel rapporto- il mancato pagamento del salario minimo legale costituisce la norma. Molti di loro riferiscono di essere costretti a contrarre prestiti per far fronte alle spese quotidiane, come quelle di riscaldamento in inverno. Ciò significa che la maggior parte è fortemente indebitata.

“Sto restituendo un prestito mentre guadagno 150 euro al mese. Soldi chiesti non per acquisti di lusso, ma per pagare le mie cure mediche“, ha riferito un lavoratore.

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In che condizioni vivono questi lavoratori?

Oltre a contrarre debiti, i lavoratori e le loro famiglie sopravvivono, nonostante la povertà dei salari, grazie all’agricoltura di sussistenza, condotta oltre le lunghe ore di lavoro in fabbrica, e grazie al sostegno dei membri della famiglia che migrano verso l’Europa occidentale in cerca di lavoro.

Quasi tutti gli altri lavoratori intervistati hanno raccontato di avere familiari che lavorano nell’edilizia o nell’agricoltura, ad esempio in Italia o in Francia. La migrazione della manodopera verso l’Occidente è una conseguenza diretta della povertà dei salari.

“Provate a mantenere le vostre famiglie per un solo mese con i nostri salari” è stato l’invito di un lavoratore rivolto alle aziende che producono abiti nella fabbrica in cui è impiegato.

Oltre ai bassi salari, i lavoratori della metà delle fabbriche oggetto di indagine riferiscono di ore di lavoro straordinario non retribuito, così come di ventilazione e aria condizionata non funzionanti in un Paese dove le estati possono essere roventi.

La ricerca ha riscontrato anche casi di straordinari forzati e di accesso limitato o mancato all’acqua. Tutti i lavoratori si sono lamentati di essere vittime di bullismo: vengono maltrattati verbalmente, molestati e costantemente minacciati di licenziamento.

“La nuova ricerca della CCC dimostra che lavorare per i marchi della moda occidentali non costituisce una via di uscita dalla povertà, piuttosto favorisce la contrazione di debiti per sopravvivere ed è causa di separazione delle famiglie. Nessuno dei marchi che si rifornisce in Romania si è impegnato seriamente ed efficacemente contro le violazioni dei diritti umani e del lavoro nel Paese”, spiega Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti.

La Clean Clothes Campaign chiede che l’Unione Europea che sviluppi una politica comune sui salari minimi per garantire in tutti gli Stati membri il rispetto del diritto umano a un salario vivibile.

“È giunto il momento – continua Lucchetti – che l’Unione europea introduca norme vincolanti sui diritti umani per le catene di fornitura e affronti le grandi disuguaglianze all’interno del continente. In una parte – quella occidentale – i salari minimi legali sono a prova di povertà; nell’altra sono addirittura al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Unione Europea”.

Di contro, le aziende si difendono, come C&A, che sottolinea  il suo impegno nei confronti delle condizioni di lavoro e dei salari dei lavoratori della catena di fornitura.

“In C&A crediamo in una moda dall’impatto positivo e ci impegniamo ogni giorno per creare un cambiamento sistemico nell’intera industria tessile, per questo motivo e alla luce di quanto descritto nel report, chiediamo di rimuovere C&A dall’elenco dei marchi che non garantiscono salari minimi o di fornire ulteriori dettagli sulla fondatezza di tale informazione che non ci rappresenta”, ci dicono, come spiega la sezione Sustainable lives .

Il Global Sustainability Report di C&A è consultabile cliccando qui

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Dominella Trunfio

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