Strage di Cutro: i familiari pronti alla class action contro l’Italia

Il Mediterraneo la notte del 26 febbraio è diventato un cimitero all’aria aperta. A pochi metri dalle coste calabresi di Cutro è naufragato il sogno di almeno 71 persone di scappare verso un futuro migliore. A distanza di una settimana, la rabbia dei parenti delle vittime non si placa, tanto che si parla di una class action contro il nostro Paese. I familiari si sarebbero già rivolti a legali per far luce su quanto accaduto. Si dovrà appurare se si poteva in qualche modo evitare tutte queste morti

Il Mediterraneo la notte del 26 febbraio è diventato un cimitero all’aria aperta. A pochi metri dalle coste calabresi di Cutro è naufragato il sogno di almeno 71 persone di scappare verso un futuro migliore. A distanza di una settimana, la rabbia dei parenti delle vittime non si placa, tanto che si parla di una class action contro il nostro Paese. I familiari si sarebbero già rivolti a legali per far luce su quanto accaduto. Si dovrà appurare se si poteva in qualche modo evitare tutte queste morti.

Al centro delle polemiche di queste ore ci sono i presunti ritardi nei soccorsi che, se giunti prima sul posto, avrebbero forse potuto salvare alcune di quelle vite. Si tratta per lo più di un atto dovuto, vista l’inchiesta in corso, con due procedimenti penali iscritti dalla Procura della Repubblica di Crotone. Il primo ha già portato all’arresto di alcuni presunti scafisti che dovranno rispondere dei reati di disastro colposo e di omicidio colposo plurimo. Il secondo mira invece a raccogliere elementi per valutare se ci siano state responsabilità per il mancato soccorso in mare.

Sull’argomento è intervenuto anche l’artista Harry Greb che ha realizzato, a due passi da Piazza Navona, un’opera ritraente Gesù che indossa una bandiera dell’Europa, mentre regge in mano un’imbarcazione che reca l’emblematica scritta: “Why Not“? (Perché no?). Il messaggio è forte e chiaro: Gesù invita i Paesi europei ad accogliere e salvare invece che scagliarsi l’uno contro l’altro in un rimpallo di responsabilità che costa decine di morti innocenti.

Tra le vittime anche Shahida, la capitana della nazionale pakistana di hockey

Ben si capisce dunque come questa tragedia abbia sconvolto tutti. Ad essere toccato è stato anche il mondo dello sport. Tra i 150 migranti su quel barcone maledetto c’era infatti la ventisettenne Shahida Raza, conosciuta nel mondo dello sport per essere la capitana della nazionale femminile di hockey su prato del Pakistan.

Lo ha reso noto la stessa Federhockey pakistana, ufficializzando la notizia su Twitter ed esprimendo cordoglio per la perdita della sua giocatrice di punta. Non c’è stato nulla da fare per l’atleta, che ha rappresentato il suo Paese in diverse competizioni internazionali e che giocava con il Balochistan United.

Un Paese che rappresentava in campo, ma da cui voleva scappare per dare alla figlia una vita diversa da quella attuale. Shahida aveva infatti divorziato e stava attraversando un periodo difficile, sola a crescere la piccola che però non era con lei sul barcone.

Da qui la decisione: lasciare il Pakistan per tentare fortuna in Europa. La donna, che apparteneva alla comunità sciita Hazara, viveva nella città di Quetta, nella provincia del Balochistan. Sapeva i rischi che correva, con una traversata della speranza in condizioni peggio che disumane, eppure il sogno che l’aspettava dall’altra parte delle coste era più grande della paura.

Grazie alla sua passione, riusciva a sostentare la famiglia

Per sostentarsi e potersi permettere la traversata, giocava da otto stagioni nella squadra di Quetta che punta sull’integrazione di etnie e religioni. Grazie a questa passione, diventata anche un lavoro, riusciva a portare a casa dai 17 ai 100 dollari per ogni vittoria.

Soldi che, come tristemente noto, ha usato per imbarcarsi alla volta dell’Italia. Fonti vicine alla famiglia dicono che avrebbe pagato 4.000 dollari per coronare quel sogno. Sogno che, assieme a tanti altri suoi compagni di viaggio, l’ha spinta fino alla morte.

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