Storie di pace e resilienza: il coraggio di Israeliani e Palestinesi che hanno coltivato il sogno di conoscersi

I conflitti tra israeliani e palestinesi continuano a fasi alterne da oltre settant’anni. Così, di nuovo, tra Israele e la fazione palestinese di Hamas a Gaza è guerra aperta da giorni. Eppure, preso singolarmente o in piccolissimi gruppi, l’essere umano dà prova che – in fondo – vivere in pace è possibile. Ne sono esempio queste storie di amicizia, di amore e di collaborazione che abbiamo scelto oggi

Hamas vs Israele, ci abbiamo pensato molto. Affrontare una situazione così straziante e divisiva ci appesantisce il cuore e raggela le mani. Il conflitto in corso tra Israeliani e Palestinesi non solo sta devastando la vita di coloro che ne sono direttamente colpiti, ma sta anche avendo un profondo impatto su tutti, giornalisti compresi.

Noi di GreenMe, al di sopra di ogni parte politica, ideologica, culturale, religiosa, vediamo solo una complessissima storia, intrecciata con innumerevoli strati di oppressione e di emarginazione, che danno ogni giorno origine a prospettive e commenti polarizzati. Al centro di tutto ciò ci sono, però, gli esseri umani, che meritano di essere ascoltati e sostenuti.

C’è l’urgenza estrema di pace, come unico solo efficiente atto politico. Di esempi di condivisione pacifica tra i popoli ce ne sono eccome, anche tra israeliani e palestinesi. Ne abbiamo cercato (e trovato) molti.

Vogliamo raccontarvi queste storie di coraggio di Israeliani e Palestinesi che hanno coltivato il sogno di conoscersi, dimostrando che il conflitto israeliano-palestinese non è questione di tifo da stadio, ma di umanità. Perché le vittime reali di questo scontro infinito sono persone proprio come te.

La forza delle donne

Centinaia di donne palestinesi e israeliane si sono radunate a Gerusalemme e sul Mar Morto, nella Cisgiordania occupata, chiedendo la fine dei conflitti israelo-palestinesi.

Vogliamo la pace, hanno cantato le manifestanti, vestite di bianco e con cartelli con la scritta “Smettetela di uccidere i nostri figli”.

Il nostro messaggio è che vogliamo che i nostri figli siano vivi piuttosto che morti, dice Huda Abu Arqoub, attivista palestinese e direttrice della ONG Alliance for Middle East Peace, durante la manifestazione. Questa è la prima volta che abbiamo una vera partnership tra donne israeliane e palestinesi su un livello paritario.

Storie d’amore e d’amicizia

Dana Levy e Mohammed Saqar

Dana e Mohammed si incontrarono alla fine degli anni ’90, da adolescenti, in un campo estivo di Seeds of Peace negli Stati Uniti, un programma coinvolge giovani provenienti da parti opposte di aree di conflitto e li aiuta a conoscersi a vicenda. Dana raccontava al NPR, ormai 13 anni fa, che Mohammed la odiava quando si incontrarono per la prima volta, ma la sua antipatia non durò a lungo.

Avevamo questa cosa che ci svegliavamo un’ora prima di tutti, e la mattina andavamo in giro per il campo e parlavamo, diceva. È stato molto, molto strano. Sono state due settimane di odio e poi due settimane in cui passavamo l’intera giornata insieme.

Entrambi avevano perso la famiglia nei conflitti della regione, ma sono diventati amici e sono rimasti in contatto telefonicamente per moltissimo tempo. Poi più nulla: quell’amicizia non ha resistito alla prova del tempo e della guerra. Lei continua a vivere a Tel Aviv e lui è ancora a Gaza. E l’assedio ha cambiato ogni cosa.

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Keidar e Mehanna

La loro storia fu riportata dal Washington Post nel 2014. Due amiche, Roni Keidar e Maha Mehanna, la prima, ebrea già allora 70enne “orgogliosa sionista” che viveva a 800 metri di distanza dal confine con la Striscia; la seconda, allora 43enne, palestinese che viveva nell’area di Gaza City. Si erano conosciute in uno dei pochissimi spostamenti concessi per andare in Israele e rifornirsi di medicinali. Keidar, quale membro della Organizzazione Non Governativa “Other Voice” che promuove il dialogo Israelo-Palestinese e si oppone al blocco nei confronti di Gaza, faceva parte della “scorta” civile che ne garantiva i movimenti. Fu allora che nacque un’amicizia vera.

Per favore fammi sapere se sei al sicuro. Ti abbraccio, scrisse Keidar a Mehanna, mentre un drone israeliano sorvolava la sua casa. Prego e piango per la maggior parte del tempo – le rispose l’amica da Gaza – non vedo fine a questa follia. Per favore abbi cura di te e resta al sicuro.

Dalia e Imad

Raccontata dall’Independent, questa è la storia di Imad Hamdan, palestinese proveniente da una famiglia di rifugiati a Gaza, e Dalia, ebrea israeliana. Erano gli anni ’80 e Imad lavorava nei cantieri di Tel Aviv. A Dalia non erano particolarmente simpatici gli arabi, eppure – come in una storia d’amore che si rispetti – una volta conosciuto Imad se ne è innamorato e ha superato con tutte le forze ogni difficoltà, comprese quelle poste dalla sua famiglia d’origine.

Per un periodo Imad e Dalia hanno vissuto in Israele, dove hanno avuto tre figli, ma poco prima della seconda Intifada, Dalia si è trasferita a Gaza per essere aiutata nella cura della famiglia dalla madre di Imad. A Gaza è nato il loro figlio più giovane, Rami, e negli anni Novanta Dalia si è convertita all’Islam. Nonostante i ripetuti scontri e, soprattutto, nonostante l’operazione “Piombo Fuso” tra il 2008 e il 2009, ancora nel 2010 Imad e Dalia vivevano a Gaza e, viste le restrizioni ai movimenti verso l’estero imposti agli abitanti della Striscia, è probabile che siano ancora lì con i loro quattro figli.

dalia ebrea

©The Independent

I progetti istituzionali, prove tecniche di pace

Dall’inizio degli anni 2000, i palestinesi e gli ebrei israeliani hanno collaborato a nove progetti in cui affrontavano le narrazioni del conflitto arabo-israeliano/palestinese. Ciò ha comportato principalmente la riduzione delle differenze tra le narrazioni dei due partiti; la legittimazione di due narrazioni parallele e il riconoscimento che ciascuna parte potrebbe avere diverse narrazioni sullo stesso argomento anziché una sola.

Quello che è emerso da questa sorta di esperimento è che ci sono forze all’interno di ogni società che cercano di promuovere la pace. Interessante, tra questi, è il secondo progetto – “Storie condivise” – che ha coinvolto tre istituzioni che nel 2002 hanno organizzato diversi seminari in Israele e Cipro composti da palestinesi ed ebrei israeliani (storici, geografi, giornalisti, ecc.) per presentare e discutere le narrazioni storiche di entrambe le parti riguardanti vari importanti eventi del conflitto avvenuto tra il 1882 e il 1882 e il 1949. Gli argomenti discussi includevano: l’insediamento sionista in Palestina/ Eretz Israel (1982-1914), il movimento nazionale palestinese (1919-1939), la risoluzione delle Nazioni Unite del 1947 per stabilire gli stati ebraico e palestinese, la guerra del 1948 e le questioni religiose del conflitto. Gli obiettivi erano principalmente quelli di aumentare la comprensione e il rispetto reciproci riguardo alle narrazioni e di esplorare le differenze tra le narrazioni delle due parti.Empatia incondizionata

QUI tutte le fasi del programma.

Due religioni, un solo obiettivo

Divenne virale, in piena pandemia, la foto di due paramedici, uno musulmano e l’altro ebreo, che pregavano insieme di fronte all’ambulanza su cui lavoravano ogni giorno. Fu allora il simbolo dell’unione di tutti nel raggiungere lo stesso importante obiettivo, nonostante le divergenze culturali e religiose, anche quelle più difficili da accantonare. È anche un potente messaggio di pace.

In un raro momento di pausa, Avraham Mintz, ebreo, e Zoher Abu Jama, musulmano, hanno pregato insieme. Un’immagine bellissima.

QUI raccontammo la loro storia.

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Foto © Mohammed ʼLnbʼry

Empatia incondizionata

Siamo nel 2017 e mentre il conflitto israeliano-palestinese non accenna ad arrestarsi, a Gerusalemme l’infermiera israeliana Ula Ostrowski-Zak compì un enorme gesto di pace e amore tra i più belli allattando al seno il bimbo di una paziente palestinese in coma.

Durante il suo turno di lavoro presso l’ospedale Hadassah di Gerusalemme, l’infermiera si trovò di fronte ad una situazione particolare: un bimbo palestinese di nove mesi, Yamen Abu Ramila, era nella struttura insieme a sua madre ricoverata in gravi condizioni, non mangiava da parecchie ore e non c’era nessuno che potesse dargli il latte (il piccolo rifiutava il biberon). Pensò allora di risolvere il problema lei stessa allattandolo al seno per diverse volte nel corso della notte, sfamando dunque quel piccolo bambino che allora divenne simbolo di pace e speranza per il futuro.

La sua storia QUI.

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Che fine abbiano oggi fatto quel neonato e l’infermiera Ula Ostrowski-Zak, Dalia e Imad e i loro figli o Dana Levy e Mohammed Saqar, putroppo, non ci è dato saperlo.

La ferocia commessa da Hamas il 7 ottobre ha reso molto più difficile invertire questo ciclo mostruoso – scrive Peter Benart in un interessantissimo pezzo sul New York Times. Potrebbe volerci una generazione. Richiederà un impegno condiviso per porre fine all’oppressione palestinese in modi che rispettino il valore infinito di ogni vita umana. Richiederà ai palestinesi di opporsi con forza agli attacchi contro i civili ebrei, e agli ebrei di sostenere i palestinesi quando resistono all’oppressione in modi umani – anche se i palestinesi e gli ebrei che adottano tali misure rischieranno di diventare un rischio tra la loro stessa gente. Richiederà nuove forme di comunità politica, in Israele-Palestina e nel mondo, costruite attorno a una visione democratica abbastanza potente da trascendere le divisioni tribali. Lo sforzo potrebbe fallire. Ha già fallito in passato. L’alternativa è scendere, con le bandiere sventolanti, all’inferno.

Oggi, a nostro parere, condannare il governo israeliano non significa essere antisemiti e supportare la popolazione palestinese non significa supportare Hamas. Serve solo la pace, tutto qui, e di questo noi faremo un punto fermo.

NdR: l’opera di street art diventata virale e che riportiamo in copertina viene attribuita erroneamente a Banksy. In realtà è del norvegese Alex F. Knudsen e l’immagine, del 2022, è intitolata “The boy in the striped pyjamas”.

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