Costa Concordia: come rimuovere il relitto. Le tre ipotesi

Spettacolo macabro e disarmante quello offerto dalla Costa Concordia, incagliatasi sulle rocce il 13 gennaio scorso, all’isola del Giglio, a cui ci si dovrà però a malincuore abituare per un bel po’. Almeno un anno, secondo la migliore delle possibilità: rimuovere definitivamente la mega-carcassa, arenata sul lato sinistro sarà, infatti, un'impresa complicata, lunga e costosa, la prima al mondo nel suo genere, e richiederà un impegno ingegneristico di altissimo livello, fondamentale però per la salvaguardia dell'ambiente. Ma, dopo averla liberata dal gasolio, come si agirà?

Spettacolo macabro e disarmante quello offerto dalla Costa Concordia, incagliatasi sulle rocce il 13 gennaio scorso, all‘isola del Giglio, a cui ci si dovrà però a malincuore abituare per un bel po’. Almeno un anno, secondo la migliore delle possibilità: rimuovere definitivamente la mega-carcassa, arenata sul lato sinistro sarà, infatti, un’impresa complicata, lunga e costosa, la prima al mondo nel suo genere, e richiederà un impegno ingegneristico di altissimo livello, fondamentale però per la salvaguardia dell’ambiente. Ma, , come si agirà? Ad oggi sono tre le ipotesi prese in considerazione: chiudere la falla e provare a rimorchiare la nave, chiudere la falla e rimorchiare solo la base, dopo aver liberato lo scafo di buona parte dei ponti superiori, o smontarla pezzo dopo pezzo sul posto.

“Il primo scenario è il più allettante, ma anche il più difficile da realizzarsi, visto che c’è poca acqua sotto la nave e ciò rende problematico poter applicare eventuali cassoni di spinta. Il terzo scenario è sicuramente il più devastante; segarla sul posto, con le catene o con le fiamme ossidriche, è la cosa più pericolosa per l’ambiente, perché potrebbe finire in mare di tutto“, sostiene Vincenzo Ruggiero, consulente per il ministero dell’Ambiente e della Protezione civile nei principali casi di recupero relitti della storia recente, convinto che l’opzione intermedia sarebbe la più semplice. “Dopo aver tamponato le falle, si tagliano e si asportano 6-7 dei 18 ponti della nave, quelli più facili da raggiungere, si riporta l’imbarcazione in posizione di galleggiamento e la si porta via“, spiega Ruggiero, mentre le associazioni ambientaliste e i gigliesi continuano a spingere fortemente in direzione della prima.

Per realizzarla, il primo passo sarebbe quello di posizionare delle enormi lastre sul lato opposto all’inclinazione della barca e, in seguito, la nave verrebbe imbragata e sollevata con l’aiuto di palloni galleggianti attaccati allo scafo, con l’acqua presente all’interno asportata con l’ausilio di pompe idrovore. Dei pali conficcati nella roccia dovrebbero agire come punti di attacco per la chiglia, trave longitudinale a sezione quadrata o rettangolare che percorre l’imbarcazione da poppa a prua nella sua parte sommersa. Una volta a galla, sollevato con palloni d’aria messi intorno, il relitto dovrà essere trainato per essere smantellato, probabilmente sulle spiagge di Vietnam, Bangladesh o India, visto che non esistono cantieri demolitori per navi di queste dimensioni, in Italia.

Intanto, sono dieci le società di tutto il mondo chiamate a presentare un piano a Compagnia (Smit Salvage BV; Svitzer Salvage; Mammoet Salvage; Titan Salvage; Resolve Marine Group Inc; T&T Marine Salvage; Donjon Marine Inc; Tito Neri; Fukada Salvage & Marine Works Co.Ltd; The Nippon Salvage Co.Ltd) che dovrà pervenire entro l’inizio di marzo 2012 a Costa Crociere. La compagnia li valuterà insieme al Comitato Scientifico delle Protezione Civile, per arrivare a scegliere il migliore entro la fine di marzo 2012. ”I tempi indicati sono da considerarsi i migliori possibili in una situazione di questo genere, fermo restando che non si possono escludere sin d’ora slittamenti, data la complessità dell’ operazione”, spiega Costa.

Tra le favorite c’è sicuramente l’olandese Smit Salvage, che si è già occupata di mettere in sicurezza la Concordia e che è impegnata attualmente nello svuotamento dei serbatoi, operazione fondamentale per scongiurare il disastro ambientale più pericoloso, lo sversamento in mare delle 2.380 tonnellate di Ifo 380. “È il più grosso caso di recupero della storia: chi sarà incaricato avrà un’enorme visibilità. Se ce la farà, entrerà nella leggenda. Se le cose dovessero non filare per il giusto verso, si brucerà“, tuona lapidario il responsabile delle operazioni al Giglio della Smit Salvage, Max Iguera . Ma in palio, oltre alla gloria e ad una cifra di 200 milioni di euro, c’è anche una titanica battaglia contro la distruzione definitiva di un ecosistema prezioso come quello toscano.

Roberta Ragni

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