Tsunami un anno dopo: l’emergenza inquinamento “da microplastica” nell’Oceano Pacifico

È passato un anno da quando la gigantesca ondata dello tsunami si è ritirata, lasciandosi alle spalle distruzione, morte, un terribile disastro nucleare e dando inizio all'emergenza rifiuti e detriti che si è trascinata appresso, che 12 mesi dopo è ancora grave. Anzi, gravissima. Imbarcazioni, pezzi di edifici, elettrodomestici, oggetti di ogni tipo e dimensione in plastica, metallo, gomma hanno galleggiato e vagato nell'Oceano Pacifico e ora stanno arrivando sulle coste degli Stati Uniti d'America, mettendo in pericolo non solo le imbarcazioni, ma anche gli uccelli marini e altri animali selvatici lungo la loro strada. E persino l'uomo.

È passato un anno da quando la gigantesca ondata dello tsunami si è ritirata, lasciandosi alle spalle distruzione, morte, un terribile disastro nucleare e dando inizio all’emergenza rifiuti e detriti che si è trascinata appresso, che 12 mesi dopo è ancora grave. Anzi, gravissima. Imbarcazioni, pezzi di edifici, elettrodomestici, oggetti di ogni tipo e dimensione in plastica, metallo, gomma hanno galleggiato e vagato nell’Oceano Pacifico e ora stanno arrivando sulle coste degli Stati Uniti d’America, mettendo in pericolo non solo le imbarcazioni, ma anche gli uccelli marini e altri animali selvatici lungo la loro strada. E persino l’uomo.

Probabilmente, oramai frantumati in pezzi microscopici, non potranno mai essere individuati, ma gli esperti stanno ancora cercando di capire quali potrebbero essere i pericoli per la salute umana e animale dei circa 25 milioni di tonnellate di detriti prodotti dal terribile tsunami. “Durante lunghi periodi di tempo come questo, le materie plastiche più grandi si degradano in particelle sempre più piccole, che possono creare un percorso addizionale di esposizione ad alcuni contaminanti chimici“, spiega Courtney Arthur, scienziato del National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) impeganto nel Marine Debris Program. Pezzetti di plastica talmente piccoli che potrebbero essere scambiati per cibo dai pesci, causando l’assorbimento delle sostanze tossiche nei loro organismi.

È il cosiddetto inquinamento “da microplastica”, che, con sostanze come i policlorobifenili (PCB) e le diossine, potrebbe ripercorrere la catena alimentare e giungere fino alle nostre tavole, con il rischio di provocare potenzialmente, negli esseri umani, ogni tipo di problema, dalle disfunzioni ormonali ai disturbi neurologici. E persino il cancro. Questi pezzetti sono più piccoli della capocchia di uno spillo, più sottili di un capello, sono particelle che misurano meno di un millimetro che vengono ingerite da squali, tartarughe marine, krill. Ma le loro dimensioni non devono ingannare, poiché la plastica contiene ingredienti molto tossici tanto che alcuni sono stati vietati anche nel ciclo di produzione, come ad esempio il Bisfenolo A. La microplastica ingerita dai pesci, infatti, è in grado di trasferirsi e persistere nel loro corpo per mesi e gli uccelli marini sono le altre vittime predilette di questo tipo di inquinamento.

Ma quanti pezzetti di plastica ci sono nei nostri oceani? Fino a che punto fanno minacciano la vita marina e la salute umana? Molti scienziati si stanno affannando per studiare il problema, cercando anche risposte sulla pericolosità di queste sostanze, come Marcus Eriksen, direttore del 5 Gyres Institute. “Alcune particelle di plastica possono essere fino a un milione di volte più inquinanti rispetto a quelle che sono già presenti nell’ambiente marino“, ha detto il direttore, che con un team di biologi sta raccogliendo campioni dalle acque del Pacifico nordoccidentale. Una sorta di micro-pillola tossica, di cui nessuno può conoscere ancora appieno l’esatta entità e il grado di proliferazione nell’oceano. L’unica cosa certa è che la plastica è quasi eterna. Immette agenti inquinanti nella catena alimentare, danneggia la fauna e la flora marina ma non scompare mai Si e si degrada lentamente diventando pericolosissima “polvere di plastica“.

Roberta Ragni

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