Il lato oscuro dei pannelli solari cinesi che hanno raggiunto l’80% della produzione mondiale

Ad oggi anche le energie hanno un prezzo. È il caso dei pannelli solari, la cui produzione è detenuta per l'80% a livello mondiale dalla sola Cina. Tantissime tecnologie, ma pochissimi meriti: tutta questa ricchezza deriva dallo sfruttamento - legittimato dal Governo - delle minoranze etniche

Catene di fornitura super integrate, tecniche di produzione innovative e un costante sostegno da parte del Governo. Ufficialmente è così che è cresciuta l’industria solare cinese, che – ad oggi – detiene l’80% della produzione mondiale di pannelli solari. Anche in questo la Cina è stata brava, come in tutto: a ridurre, cioè, anche i costi delle tecnologie pulite come i pannelli solari. Ma poi, sì, c’è dell’altro.

Una cosa enorme, così come enorme è il suo mercato interno: il Paese asiatico vanta quasi 4 volte la capacità solare installata degli Stati Uniti, che sono il secondo mercato più grande del mondo. E non solo: le esportazioni solari dalla Cina sono aumentate del 34% nella prima metà del 2023 rispetto all’anno precedente.

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In tutto questo, probabile che le supertecnologie nell’industria solare cinese abbiano fatto qualcosa, ma più di tutto è la parte di manodopera che ha svolto un ruolo cruciale nell’accelerare la diffusione globale delle energie rinnovabili. E questo cela una verità più oscura.

Il dominio cinese

Oggi i pannelli solari vengono prodotti principalmente in Cina. Secondo i dati della National Energy Administration, la Cina nei primi quattro mesi del 2023 ha installato 48,31 GW di capacità solare fotovoltaica, quasi triplicando i 16,88 GW installati nello stesso periodo dell’anno scorso.

Solo 10 anni fa la Cina forniva il 40% dei pannelli solari del mondo. Oggi la sua quota di mercato globale supera l’80%, quasi un monopolio.

Non è un caso che la Cina sia così ben posizionata per trarre vantaggio da questo boom del solare. A metà degli anni 2000, il Governo cinese ha investito centinaia di miliardi di dollari nello sviluppo del settore manifatturiero delle energie rinnovabili, concentrandosi su quelli che da allora i funzionari hanno soprannominato “i nuovi tre”: veicoli elettrici, batterie al litio e celle solari.

Nella prima metà del 2023, le esportazioni di pannelli solari cinesi sono aumentate del 34%, con 114 GW inviati in tutto il mondo, rispetto agli 85 GW dello stesso periodo del 2022 (più della metà dei moduli esportati dalla Cina nella prima metà del 2023 erano destinati all’Europa con un +58%).

L’Unione europea aveva tentato di limitare la concorrenza sleale della Cina imponendo dei dazi sulle importazioni cinesi nel 2012, ma poi li revocò nel 2018 con l’intento di potenziare gli impianti di energia rinnovabile.

Lo sfruttamento dei lavoratori, il lato oscuro del boom dei pannelli solari cinesi

In realtà è già ben documentato il collegamento tra l’industria solare cinese e la persecuzione della minoranza etnica uigura nello Xinjiang. Tra un terzo e la metà del polisilicio mondiale viene infatti prodotto qui.

Secondo un rapporto ufficiale del Governo cinese pubblicato nel 2020, ben 2,6 milioni di cittadini di etnie minori (uiguri e kazaki) sono state “collocate” per occupare posti di lavoro disponibili nelle fattorie e nelle fabbriche nello Xinjiang e in altre parti del Paese, nell’ambito di iniziative pubbliche relative al “surplus di manodopera” e al “trasferimento di manodopera”. Ma non è tutt’oro quel che luccica.

Uno studio britannico parla chiaro: circa il 45% della fornitura mondiale di un componente chiave nella produzione di pannelli — il polisilicio — sarebbe prodotto nella provincia cinese dello Xinjiang. Ma in che condizioni? La produzione di questo componente è solo la punta dell’iceberg di un più vasto e occultato sistema di coercizione della minoranza degli uiguri residenti nel territorio cinese.

Una serie di programmi, quelli per il lavoro di queste etnie, che il Governo cinese giura siano conformi alla legge statale, assicurando che i lavoratori operano a titolo volontario. Tuttavia, vi sarebbero prove significative — tratte per la gran parte da fonti governative e aziendali — del trasferimento coatto di manodopera nella regione uigura in un clima di coercizione senza precedenti, aggravato dalla costante minaccia di rieducazione e internamento.

Una vera e propria riduzione in schiavitù di interi gruppi etnici della popolazione cinese e il peggio è che è un modo legittimato e incentivato dalle stesse autorità cinesi. Intanto, gli Stati Uniti hanno limitato le importazioni dirette di energia solare dalla Cina attraverso politiche come l’Uyghur Forced Labor Prevention Act e tariffe stabilite per proteggere l’industria americana dal dumping e dalle pratiche non competitive. Tuttavia, molti moduli solari assemblati in Vietnam, Tailandia e Cambogia, che sono le maggiori fonti di pannelli solari statunitensi, utilizzano componenti cinesi. Dunque è un cane che si morde la coda.

E l’inquinamento ambientale

Ciliegina sulla torta è l’inquinamento che questa produzione causa. Sebbene i pannelli solari cinesi possano produrre energia priva di emissioni di carbonio, la produzione di questi pannelli non è così rispettosa dell’ambiente.

Il carbone rappresenta infatti la maggior parte della produzione di elettricità in Cina e nella regione autonoma dello Xinjiang Uigura, dove si concentra la fase a maggior consumo energetico nel processo di produzione dei pannelli solari, il carbone rappresenta il 77% della produzione di energia. Secondo uno studio, infine, i pannelli solari prodotti in Cina producono il 30% in più di emissioni di gas serra rispetto a quanto accadrebbe se questa catena di approvvigionamento venisse spostata negli Stati Uniti.

Contenti del solare, certo, ma non a queste condizioni.

Abbiamo parlato di questo anche nel nostro podacast “Nuove schiavitù rinnovabili”:

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