Pfas come tabacco e zucchero: le aziende sapevano da decenni che erano tossici, l’inchiesta shock

E anche dei Pfas - noti negli Usa come "forever chemicals" in quanto persistono nell'ambiente molto a lungo - si "scoprono gli altarini". Una nuova ricerca ha infatti reso noto che le maggiori aziende produttrici di Pfas negli Usa già da decenni sapevano dei rischi ma si sono ben guardate da rendere pubbliche le evidenze scientifiche

Forse ricorderete quanto svelato ormai da tempo riguardo a tabacco e zucchero. Documenti trapelati hanno fatto scoprire che alcune multinazionali di settore conoscevano molto bene i rischi dei loro prodotti ma hanno insabbiato il tutto, per il proprio personale tornaconto ai danni dei consumatori.

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Ora è la volta dei Pfas, sostanze per- e polifluoroalchiliche. Una nuova indagine, condotta dai ricercatori dell’UC San Francisco, ha scoperto che i 2 più importanti produttori di Pfas, già da decenni, conoscevano i rischi di queste sostanze.

In un nuovo articolo, pubblicato su Annals of Global Health, i ricercatori esaminano i documenti di DuPont e 3M, i maggiori produttori di Pfas, e analizzano le tattiche utilizzate dalle multinazionali per impedire che la tossicità di queste sostanze diventasse nota a tutti e, di conseguenza, arrivassero normative per disciplinarne l’uso.

Come ricordano i ricercatori, i Pfas sono sostanze chimiche ampiamente utilizzate nell’abbigliamento, negli articoli per la casa e nei prodotti alimentari e sono altamente resistenti alla decomposizione, per questo vengono chiamate “forever chemicals” (sostanze chimiche per sempre).

Come sappiamo, purtroppo sono ormai praticamente onnipresenti nell’ambiente. Ma evidentemente già da tempo si poteva fare qualcosa, se solo si fosse saputo prima quali erano i rischi.

Come ha dichiarato Tracey J. Woodruff, PhD, professoressa e direttrice del programma UCSF on Reproductive Health and the Environment (PRHE) oltre che autrice senior della ricerca:

Questi documenti rivelano prove evidenti che l’industria chimica era a conoscenza dei pericoli dei PFAS ed è riuscita a non far conoscere i rischi al pubblico, alle autorità di regolamentazione e persino ai propri dipendenti.

E le multinazionali erano a conoscenza degli effetti avversi, non da poco tempo prima, ma da decenni! Come scrivono i ricercatori:

I documenti segreti dell’industria sono stati scoperti in una causa intentata dall’avvocato Robert Bilott, che è stato il primo a citare in giudizio con successo DuPont (società chimica multinazionale americana, n.d.r) per contaminazione da PFAS e la cui storia è stata descritta nel film “Dark Waters”. Bilott ha consegnato i documenti, che coprono 45 anni dal 1961 al 2006, ai produttori del documentario “The Devil We Know”, che li ha donati alla UCSF Chemical Industry Documents Library .

Così i ricercatori di San Francisco hanno avuto accesso ai documenti e li hanno potuti consultare per capire cosa esattamente sapevano i produttori e da quanto tempo.

Un documento afferma che:

DuPont aveva prove di tossicità dei PFAS da studi interni su animali e occupazionali che non ha pubblicato nella letteratura scientifica e non ha riportato i propri risultati all’EPA come richiesto dal TSCA. Questi documenti sono stati tutti contrassegnati come ‘riservati’ e, in alcuni casi, i dirigenti del settore sono stati espliciti che ‘volevano che questo promemoria fosse distrutto’.

Ecco cosa sapeva l’industria dei Pfas da almeno 20 anni

Quanto scoperto in merito ai possibili effetti dannosi dei Pfas è scioccante, eppure le aziende non si sono fatte il minimo scrupolo e, per un tornaconto economico, hanno deciso di insabbiare il tutto.

Ecco alcuni esempi di ciò che le aziende sapevano:

  • Casi di organi ingrossati: nel 1961 era stato scoperto che i materiali in teflon avevano “la capacità di aumentare le dimensioni del fegato dei ratti a basse dosi“, si consigliava quindi che le sostanze chimiche “fossero maneggiate con estrema cura” e di evitare rigorosamente il contatto con la pelle
  • Animali morti dopo ingestione: in una nota interna del 1970, l’Haskell Laboratory finanziato da DuPont ha scoperto che il C8 (uno dei Pfas) è “altamente tossico se inalato e moderatamente tossico se ingerito“. Nel 1979 gli stessi laboratori Haskell hanno scoperto che i cani esposti a una singola dose di PFOA “morivano due giorni dopo l’ingestione
  • Difetti congeniti nei figli dei dipendenti: nel 1980, DuPont e 3M appresero che 2 delle 8 dipendenti incinte che avevano lavorato nella produzione di C8 avevano dato alla luce bambini con malformazioni congenite. La società non fece dichiarazioni e l’anno successivo un promemoria interno affermava: “Non siamo a conoscenza di alcuna prova di difetti alla nascita causati dal C-8 alla DuPont

Nonostante sapesse tutto questo (e molto altro), DuPont rassicurava i suoi dipendenti nel 1980 che il C8 “ha una tossicità inferiore, come il sale da cucina” e addirittura un comunicato stampa del 1991 affermava: “Il C-8 non ha effetti tossici o nocivi noti per la salute umana ai livelli di concentrazione rilevati“.

E non è ancora finita. In seguito alle cause legali nel 1998 e nel 2002, DuPont ha inviato un’e-mail all’Epa chiedendo:

Abbiamo bisogno che l’EPA affermi rapidamente (come prima cosa domani) quanto segue: che i prodotti di consumo venduti con il marchio Teflon sono sicuri e ad oggi non sono noti effetti sulla salute umana causati dal PFOA.

Al contrario, l’Epa nel 2004 ha multato DuPont per ben 16,45 milioni di dollari per non aver divulgato le proprie scoperte sul PFOA. Ma scrive l’USCF: “era ancora solo una piccola frazione del miliardo di dollari di entrate annuali di DuPont da PFOA e C8 nel 2005“.

Insomma, una serie di documenti e scoperte sconcertanti. Nadia Gaber, che ha guidato lo studio, ha dichiarato:

Questa ricerca è importante per informare la politica e spostarci verso un principio precauzionale piuttosto che reazionario della regolamentazione chimica.

Ora, dopo decenni, c’è più che mai consapevolezza che è necessario regolamentare al massimo l’uso di Pfas, ma viene il dubbio che, nel frattempo, si sia fatto un po’ tardi…

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Fonte: UCSF / Annals of Global Health

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