Fate quello per cui vi sentite portati, non curatevi degli altri. La preziosa lezione che ci ha donato Giorgio Minisini

Ci rivolgiamo al Giorgio bambino bullizzato. Stima e ammirazione per aver saputo superare i momenti difficili, i nomignoli stupidi e i pregiudizi. Perché, quando abbiamo un sogno, tutto sta a far tacere ogni inutile rumore e andare avanti

Non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Mille volte ce lo siamo detti, senza nemmeno sapere, magari, di storcere un verso dantesco che descrive gli ignavi (Non ragioniam di loro, ma guarda e passa).

Eppure il significato che gli abbiamo voluto attribuire è proprio quello: fino a quale misura riusciamo a farci scivolare tutto di dosso e andare oltre, avanti, pesando su braccia e gambe soltanto le nostre capacità, il nostro talento? Le nostre passioni al di là di tutto, al di là di chi spende la propria vita senza vivere mai.

Ci costa caro e amaro, a volte, vero, ma ripetersi quella frase può essere un buon viatico: devo essere sicuro di quello che valgo e riuscire a convincere prima di tutto me stesso di potercela fare.

È più o meno questo il senso di ciò che si è detto per anni Giorgio Minisini. Forte dei quattro ori agli Europei, ora sogna le Olimpiadi di Los Angeles e snocciola i suoi pensieri. Nessun ripensamento né rancore, solo il desiderio di dire ai quattro venti che sì, se si vuole, ce la si può fare ad azzittire i bulli e a realizzare i propri sogni.

A sei anni ho iniziato i primi allenamenti nel nuoto sincronizzato. Alle elementari nella mia classe erano tutti stupiti e chi sapeva della mia passione mi diceva ridendo che ero quello che si truccava, che ballava, racconta Minisini.

Ho provato a giocare a calcio, sono andato avanti per un mese, ma non mi piaceva, io volevo danzare in acqua.

Voleva danzare, in acqua. Qualcosa che supera i confini dell’immaginario per alcuni, per quelli che non sanno vedere oltre il proprio naso, che giudicano senza sapere, che straparlano a vanvera, che incasellano quello che devono fare gli uomini e quello che possono permettersi le donne.

Al liceo mi chiamavano ‘sincrofrocio’. Mi faceva male, tanto. Lo sport che avevo scelto per gli altri era legato al mio orientamento sessuale. Ci imbrigliano in ruoli che non sentiamo nostri.

Volevo mollare tutto, poi ho riflettuto e ho capito che non era giusto regalare a chi mi bullizzava la mia felicità. L’insulto a caldo fa male, ma oltre la reazione di pancia dev’esserci quella di testa. Se avessi mollato chi mi prendeva in giro avrebbe trovato un altro modo per offendermi: potevano essere l’apparecchio o i capelli lunghi. Io dico chiamami come ti pare, ma io sono felice.

Cosa ci insegnano queste parole? Che la propria serenità vale più qualsiasi altra cosa, che se si trova la strada migliore per esprimere se stessi quella va seguita senza indugio, prendendo dagli altri solo ciò che di buono hanno da offrirci, lanciando alle ortiche le cattiverie, i soprusi verbali, i giudizi.

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