Gino Paoli a Sanremo 2023: largo ai giovani, sì, ma senza di lui non ci sarebbero affatto i giovani (cantautori e musicisti)

Gino Paoli è un pilastro del cantautorato italiano, ma la scelta di Amadeus di volerlo come ospite a Sanremo ha generato non poche critiche.

Si sa, il Festival di Sanremo è un evento nazional-popolare e, in quanto tale, ogni anno cattura l’attenzione di appassionati e non. C’è chi non se ne perde una puntata, chi se ne tiene a debita distanza, ma tutti, alla fine, ne parlano. A tale proposito, ha fatto discutere la scelta di Amadeus, conduttore e direttore artistico del Festival, di invitare Gino Paoli alla serata finale della kermesse, in onda sabato 11 febbraio. «Largo ai giovani» ha sentenziato più di qualcuno sui social. Ma ha senso (ed è giusta) una polemica del genere, visto che si tratta di uno dei padri del cantautorato italiano? Qualcuno ha ironizzato scrivendo «Ecco il nuovo che avanza», senza sapere, forse, che il nuovo, senza Gino Paoli, non sarebbe stato possibile.

Premesso che, quest’anno più che mai, Amadeus ha aperto le porte del Festival a tanti giovani (basti pensare che sei dei ventotto artisti in gara provengono da Sanremo Giovani), non è certo la presenza di un artista del calibro di Gino Paoli a togliere spazio alle nuove leve. Anzi, la sua presenza ci spiega e ci ricorda che nella musica italiana esiste uno spartiacque: esiste un prima e un dopo Paoli. Le canzoni che ascoltiamo oggi, con i temi che trattano, sono inevitabilmente figlie di quello spartiacque. Esistono, in altre parole, perché qualcuno ha avuto il coraggio di rischiare, a costo di non essere compreso, e di cambiare il corso della canzone italiana.

La scuola genovese: come Gino Paoli e i primi cantautori hanno cambiato la musica italiana

Gino Paoli, classe 1934, fa parte dei cosiddetti cantautori della scuola genovese. Ma di cosa si tratta esattamente? La scuola genovese non è altro che un movimento culturale legato principalmente alla canzone d’autore, nato a Genova all’inizio degli anni Sessanta. Ne fanno parte, tra gli altri, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Umberto Bindi e Fabrizio De André. Prima di allora, la musica d’autore, in Italia, non esisteva: le canzoni erano, perlopiù, filastrocche prive di significati e messaggi profondi, brani leggeri, che consentivano agli esecutori di mettere in evidenza le proprie doti vocali, senza necessitare di una particolare interpretazione. Insomma, si trattava solo di esercizi vocali: la musica, quindi, era intrattenimento fine a se stesso.

Con i cantautori della scuola genovese, che si sono ispirati alla canzone francese, la musica italiana ha incontrato la vita, quella vera, quotidiana, fatta di piccoli e grandi dolori, dissapori, rabbia, paura, ma anche amore, impegno sociale, politica. Insomma, i temi della canzone sono cambiati, così come è cambiato il modo di trattarli. Prendiamo l’amore, ad esempio, che è certamente l’argomento più inflazionato e bistrattato nell’arte: con i cantautori genovesi ha smesso di essere pudico e allusivo, e si è fatto carnale, viscerale, profondo, doloroso, intenso.

Per non parlare, poi, di altre tematiche prima del tutto escluse dalla canzone: la politica, la guerra, i temi dell’emarginazione. Anche gli ultimi, finalmente, hanno avuto voce (De André, su tutti, ne è l’antesignano). Cambia, conseguentemente, il linguaggio, che si fa realista, crudo, diretto, privo di orpelli, sentito.

Celebrare Gino Paoli significa celebrare il passato e il presente della musica italiana

Insomma, Gino Paoli, insieme agli altri esponenti della scuola genovese, ha cambiato il corso della musica italiana, facendola diventare concreta, connessa al sentire comune, ai bisogni della gente. La musica, in altre parole, ha smesso di essere al di sopra della vita e ha iniziato ad essere un tramite per raccontarla. Paoli e i suoi quattro amici al bar, con cui si ritrovava nel quartiere Foce di Genova (il bar  Igea è quello che ha ispirato il brano Quattro amici al bar del 1991), ha avuto il coraggio di raccontare il vero. Senza mai, in nessuna occasione, abbellirlo o renderlo socialmente accettabile.

Rivoluzionario, a tal proposito, è il brano Il cielo in una stanza, del 1961, che racconta un orgasmo vissuto con una prostituta, di cui il cantautore era innamorato. Un pezzo poetico e carnale, romantico e realistico, che parla di un fatto intimo, privato, senza perdere in alcun modo la bellezza della poesia.

Ecco, alla luce di tutto questo, invitare Gino Paoli a Sanremo non è solo un modo per celebrare un artista necessario, ma anche e soprattutto un pezzo di storia della nostra musica. Se tanti cantautori sono passati dal Festival (lo stesso Paoli ha partecipato alla kermesse ben cinque volte, l’ultima nel 2002) è per merito di chi, il cantautorato, l’ha inventato.

Probabilmente, se fossero stati in vita, Amadeus avrebbe voluto con sé anche De André, Tenco, Bindi e Lauzi: avremmo detto anche a loro «Largo ai giovani»? Presumibilmente sì. E questo è un vero peccato, perché dimenticare le proprie radici (in questo caso artistiche) è sempre una sconfitta. Celebrare un artista (in vita) e rendergli omaggio per quello che ha fatto dovrebbe mettere d’accordo tutti, sempre.

Lunga vita a Gino Paoli, al cantautorato e a chi sa che solo con una buona memoria si va nel futuro.

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