“Non siamo eroi, ma non vogliamo nemmeno essere martiri”, la lettera di un’infermiera dello Spallanzani

Un'infermiera dell'opedale Spallanzani di Roma ci ha inviato una lettara, uno sfogo in cui racconta le sue preoccupazioni e le sue speranze

Smarrimento, preoccupazione, senso di colpa, ma anche solidarietà. Un’infermiera dell’Ospedale Spallanzani di Roma, che ci ha chiesto di restare anonima, ci ha inviato una lettera e ci ha affidato i suoi pensieri di donna, di lavoratrice del settore sanitario, di mamma. Uno sfogo che racchiude in se paura ma anche tanta voglia di farcela.

Medici e infermieri oggi stanno facendo i conti con una delle peggiori epidemie degli ultimi decenni, difficile da individuare visto che si trasmette anche in assenza di sintomi evidenti. Negli ospedali di tutta Italia c’è chi sta rischiando la vita e quella dei propri cari anche per noi.

“Non siamo eroi” ci racconta l’infermiera, che chiameremo Laura. La donna lavora presso l’Istituto nazionale per le malattie infettive “Spallanzani” di Roma, dove dall’inizio dell’epidemia sono in cura i pazienti colpiti dal Covid-19 e dov’è stata isolata per la prima volta la sequenza del coronavirus.

Laura è anche una mamma, che ogni giorno corre al lavoro portando con sé il timore di essere contagiata e di trasmettere il virus ai propri bambini.

Cosa prova un’infermiere di malattie infettive in questo momento di emergenza sanitaria? Il suo è uno sfogo a cuore aperto.

Inizialmente SMARRIMENTO, poiché nel giro di poco tempo tutto è cambiato, dal modo di vestirci e di lavorare, all’esigenza di proteggerci l’un l’altro lavorando, indossando mascherine, fino a doverci controllare a vicenda per applicare tutti e al meglio le regole.

Poi è subentrata la PREOCCUPAZIONE per i nostri pazienti cronici e abituali che abbiamo dovuto affidare ad altre strutture per occuparci dei soli pazienti Covid-19. Preoccupazione per i familiari, i miei figli e mio marito, per la paura di portare a casa il virus pur essendo consapevole di adottare le precauzioni necessarie. Ogni giorno mi chiedo: saranno sufficienti? Sarò stata abbastanza scrupolosa?

Vivo il SENSO DI COLPA per non poter restare a casa, non poter dedicare tempo ai miei figli piccoli, che devono essere seguiti nelle lezioni virtuali, nei compiti virtuali, che devono essere rassicurati ma resi consapevoli di ciò che succede intorno a loro. È dura non poter spiegare loro fino in fondo perché tutto è cambiato, perché mamma e papà non fanno più le stesse coccole, non danno più baci e abbracci pur sentendone un irrefrenabile desiderio. E lo è anche renderli consapevoli che se tutto questo non c’è più è per il loro bene, perché purtroppo noi infermieri sappiamo di essere perfetti vettori di questo virus. Per chi non è fortunato come me che ho a disposizione i tutti DPI, la preoccupazione è ancora più grande.

Mai come in questo momento sentiamo forte la parola SOLIDARIETÀ, mai come in questo momento ci si ritrova tutti uniti a porgere aiuto e infondere coraggio gli uni agli altri, anche ai colleghi con cui solitamente interagisci poco… E poi c’è la solidarietà da parte di estranei che ti inviano da mangiare, che poi non avrai il tempo di farlo, ma ti basta il pensiero che hanno avuto per te.

Ci sono giorni in cui la STANCHEZZA psicoemotiva prende il sopravvento, ti fa pensare e dire: “Ma chi chi me l’ha fatto fare? Perché ho scelto questa professione? Forse era la scelta giusta quando ero più giovane e non avevo figli”.

Oggi non mi sento un’eroina, né voglio essere una martire, sono una lavoratrice che non vuole morire. L’unica cosa che vorrei è poter garantire sicurezza e presenza ai miei figli e ai miei genitori, voglio poter tornare a casa senza paura di fare male alla mia famiglia.

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