Oggetti transizionali: il rifugio affettivo sicuro non solo per i bambini

Ogni età umana può avere il "suo" oggetto transizionale. Ma non solo: sono un supporto efficace anche per i cuccioli di animale.

Ogni età umana può avere il “suo” oggetto transizionale. Ma non solo: sono un supporto efficace anche per i cuccioli di animale.

C’era una volta la coperta di Linus, e c’è ancora. Non solo per Linus e tutti gli umani di ogni età ma, pure, per diverse specie di animali mammiferi. Partiamo però dall’inizio: Donald Winnicott, per primo, parlò di oggetto transizionale per definire qualcosa che in qualche modo “sostituisce” un legame, un affetto importante.

Nei bambini, ad esempio, è l’orsacchiotto (o la bambola o un pupazzo o anche semplicemente un cuscino) che diventa un compagno di giochi inseparabile, insostituibile al momento della nanna perché tutto fili liscio tra le braccia di Morfeo. Il peluche nei fatti diventa un sostituto del rapporto mamma-figlio (e occupa uno spazio transizionale, quello che separa la realtà soggettiva e quella oggettiva); la presenza e la sua “gestione” consentirà al bambino di misurarsi con la separazione, graduandola sulla base dei suoi vissuti, delle sue necessità di indipendenza o rassicurazione.

Crescendo le cose non cambiano. D’accordo, non sarà più l’orsacchiotto (forse) ma la vita offre altri oggetti: sganciati dalla loro stretta funzionalità oggettiva (l’uso concreto per cui sono stati costruiti) acquisiscono un valore “affettivo” e quindi possono diventare nuovi oggetti transizionali, modalità aggiornate per non sentirsi soli, per “agganciare” una rassicurazione implicita e sentirsi meglio, più forti. Un esempio è l’automobile: per alcuni è quasi un’estensione personale (se hanno un piccolo incidente gli verrà spontaneo dire: “mi hanno toccato”) e, con il crescere della cilindrata, diventa un simbolo di potere e seduzione.

Anche il telefono cellulare, i social, la posta elettronica controllati continuamente per verificare se si sono ricevuti dei messaggi sono i nuovi moderni oggetti transizionali: ci rassicurano sulla presenza degli altri, sul fatto che non siamo soli. Quanto più è vero, tanto più un guasto a internet o la chiavetta che non funzioni apriranno spazi di disagio, irrequietezza e la sensazione di essere “scollegati” dal mondo. Tagliati fuori.

Ma anche, più ordinariamente, spesso diventano “oggetti transizionali”: la sigaretta o il bere una birra dalla bottiglia (sostituti del biberon o del seno materno); il toccarsi i capelli come gesto di autorassicurazione (che riproduce lo stesso tipo di carezza dato, quando si era piccoli, dalla mamma o un’altra figura affettivamente importate). Gli oggetti più diversi e comportamenti “particolari” diventano cioè un modo per non sentirsi soli, per tranquillizzarsi: entrano in quello spazio transizionale che consente di collegare illusione e realtà, dentro e fuori, vissuti interiori e mondo esteriore. Dietro l’evidenza oggettiva della loro funzione e del loro contenuto, rappresentano piccole stampelle invisibili, spesso anche alla nostra coscienza, che aiutano ad affrontare momenti, a superare tensioni, a sentirci meglio.

Forse non tutti sanno però che l’oggetto transizionale è una soluzione per affrontare situazioni stressanti non solo per gli umani. Senza scomodare esperimenti spietati, come quello di Harlow condotto su piccole scimmie macaco che, sottratte alle loro madri, hanno cercato lenimento al dolore scegliendo il contatto con un oggetto morbido e accogliente (e preferendolo ad un macchinario freddo e duro che forniva cibo), oggi possiamo vedere come – in un approccio antropocentrico e rispettoso, attento ai vissuti emozionali di ogni essere vivente – gli oggetti transizionali possano essere utilizzati e siano un supporto fondamentale anche per gli animali.

In particolar modo per aiutare piccoli animali orfani a superare i traumi subiti. Grandi orsi di peluche, e altri giochi morbidi e accoglienti, ad esempio, vengono utilizzati alla Edgar’s Mission con i cuccioli di maiale e di pecora o i vitellini salvati da condizioni estreme, feriti, abbandonati.

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Lo stesso approccio funziona con animali selvatici: lo dimostra la storia di Doodlebug, un piccolo canguro grigio australiano, preso in carico dall’associazione Wires. Gillian Abbott, che lo ha salvato, spiega: “Come i cuccioli umani, tutti i neonati mammiferi hanno bisogno di comfort e di contatto con gli altri per riuscire a crescere bene; i piccoli animali sembrano rispondere ai giocattoli allo stesso modo di un bambino”.

Come sottolineò Maslow, tutti abbiamo bisogno di amore, calore, presenza di qualcuno che ci ama e ci faccia sentire al sicuro. E ogni essere vivente, tutti, tutti, tutti ne ha diritto.

Anna Maria Cebrelli

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