Dopo la Turchia, anche la Polonia potrebbe uscire dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne

I governi conservatori di Turchia e Polonia voltano le spalle alla Convenzione di Istanbul a tutela dei diritti delle donne.

Lo scorso 20 marzo, donne turche appartenenti a movimenti femministi, ong e partiti di opposizione, sono scese in piazza a Istanbul e la piattaforma indipendente “Fermiamo i femminicidi” ha organizzato un sit-in nella roccaforte laica di Kadıköy sulla sponda asiatica della città su Bosforo, per contestare l’annunciato ritiro della Turchia, dopo 10 anni, dalla Convenzione di Istanbul, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

I pilastri della Convenzione di Istanbul

La Convenzione di Istanbul, firmata da 45 paesi e dall’Unione europea, è stata formulata allo scopo, da un lato, di prevenire e combattere ogni forma di violenza contro le donne, tra cui le molestie coniugali e gli stupri in ambito domestico, le mutilazioni genitali femminili e i femminicidi; e, dall’altro, di proteggere le vittime e perseguire i colpevoli di tali atti violenti e criminali. In estrema sintesi, la convenzione intende difendere il diritto umano fondamentale delle donne e delle ragazze a una vita libera dalla violenza.

L’accordo internazionale, entrato in vigore nel 2014, era stato siglato nella città turca di Istanbul. La Turchia fu il primo Stato membro firmatario della suddetta convenzione nel 2012, proprio quando la Turchia era alla presidenza dell’organizzazione.

La contestata decisione di Ankara

Il 20 marzo, per conquistare il consenso elettorale della sua base più conservatrice, il governo di Recep Tayyip Erdoğan, dominato dal partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), ha deciso di uscire dalla Convenzione con un decreto presidenziale, senza alcuna discussione parlamentare e ignorando l’ampio consenso di cui essa godeva in gran parte del paese, dove la violenza contro le donne è in costante aumento.

Ricordiamo che sul fronte femminicidi la situazione turca è assai preoccupante: solo nel 2020 in Turchia sono state uccise almeno 300 donne per mano di mariti, partner, ex fidanzati e familiari e altre 171 sono morte in circostanze non ancora chiare. Nel 2019, oltre 400 donne hanno perso la vita nel paese a causa di deliberati atti di femminicidio.

Secondo il partito del presidente turco, la Convenzione di Istanbul costituirebbe invece una seria minaccia all’unità familiare e incoraggerebbe il divorzio. Inoltre, gli espliciti riferimenti all’uguaglianza di genere rintracciabili nel testo dell’accordo sarebbero stati impropriamente usati dalla comunità Lgbt per integrarsi e trovare spazi di accoglienza nella società turca.

Dopo la decisione di Ankara, il segretario generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, ha espresso profondo rammarico per il passo indietro compiuto dalla Turchia, che priverà le donne turche e l’intera società turca di uno strumento essenziale per combattere la violenza di genere.

In un comunicato ufficiale, anche UN Women chiede al governo turco un ripensamento e un nuovo ingresso nella convenzione, considerato che con la pandemia da Covid-19 la violenza contro donne, adolescenti e bambine ha raggiunto livelli insostenibili, che richiedono solidarietà e coordinamento, anche e soprattutto sul piano internazionale.

La Polonia sta percorrendo la strada turca?

Il conservatorismo islamista turco trova un parallelo anche in Polonia, dove la Convenzione di Istanbul è altrettanto temuta dalle correnti politiche più conservatrici e religiosamente ispirate. In Europa, anche Ungheria e Slovacchia sono tentate di uscirne, rifiutandosi di ratificarla.

Il testo della convenzione non piace all’attuale governo polacco, guidato dall’estrema destra del partito Diritto e giustizia (PiS). Lo scorso 25 luglio, Zbigniew Ziobro, ministro della Giustizia, ha affermato che la Polonia — che aveva ratificato la Convenzione di Istanbul nel 2015 — avrebbe avviato la procedura di uscita dalla Convenzione medesima, considerata pericolosa per la presenza di elementi ideologici e, in particolare, per l’obbligo di insegnare le teorie di genere nelle scuole.

Tra l’altro, per questi soggetti politici i principi e i valori della fede cattolica e la concezione tradizionale della famiglia polacca contrasterebbero anche con la visione dell’Ue imperniata nella Carta europea dei diritti fondamentali (Carta di Nizza). 

La posizione dei conservatori polacchi ricalcava la polemica sollevata proprio nell’estate 2020, quando la Commissione europea aveva deciso di bloccare alcuni finanziamenti a 6 località polacche dichiaratesi LGBT-free zones. Sono circa un centinaio le città e le regioni (sudorientali) polacche (quasi un terzo del territorio nazionale) che hanno “eretto un muro” contro i gay e, più in generale, contro la comunità Lgbt, che per alcuni esponenti politici polacchi incarnerebbe un’ideologia considerata più dannosa di quella comunista.

Come in Turchia, anche il Polonia il governo al potere ritiene che esistano già sufficienti garanzie costituzionali e legislative all’interno dei rispettivi ordinamenti nazionali e che quindi i due Stati possono tranquillamente fare a meno degli accordi internazionali in tema di violenza contro le donne e uguaglianza di genere.

Le donne turche e polacche, quindi, si dovrebbero far bastare le norme interne, che sono mutevoli e possono cambiare a seconda dei governi, e rinunciare a ulteriori strumenti internazionali e transnazionali di tutela e protezione dei loro diritti. Una magra (e inaccettabile) consolazione.

Fonti: Council of Europe/Euractiva

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