Al di là del PIL, la felicità come indicatore di punta dello stato di una Nazione

The Economist pensa di rivedere il PIL e considerare la felicità come parametro per valutare il benessere di un Paese. Felicità indicatore importante tanto quanto la condizione economica. Ma basterà?

Felicità: (anche) l’Economist pensa di rivedere il PIL e considerare la gioia come parametro per valutare il benessere di un Paese. Felicità indicatore importante tanto quanto la condizione economica. Ma attenzione: “il mondo moderno dà con una mano e prende con l’altra”.

È questa in estrema sintesi l’analisi effettuata da Bill Ridgers del The Economist come supplemento al The World in 2018: la felicità potrebbe essere considerata indicatore di punta dello stato di salute di una nazione – d’altronde un Paese come il Bhutan per più di sei decenni ha seguito una politica di sviluppo ispirata al concetto di “Gross National Happiness (GNH)”, che già senza tradurlo vuol dire molto… – per cui tanto di cappello a chi comincia a indirizzare le aziende verso l’attenzione ai benefici a breve termine e verso valori a lungo termine che a loro volta alimenteranno imprese responsabili e sostenibili. E rendono tutti più felici!

Come riferisce Ridgers, per l’anno prossimo gli americani avrebbero già in programma di effettuare 554 milioni di viaggi di lavoro, il 3,1% in più rispetto al 2017, e questo dovrebbe essere motivo di felicità perché i viaggi d’affari riflettono la fiducia economica. E così, in generale, quando le imprese sono rialziste, la popolazione nel suo insieme tende a condividere la propria gioia perché ha meno probabilità di preoccuparsi di perdere il lavoro. Potrebbe anche avere più soldi da spendere per cose belle.

Nel 2018 sarà tutto rose e fiori e il mondo si renderà conto che vale la pena misurare la felicità di un popolo e non soltanto la ricchezza? Non è un caso che si sia registrata una continua crescita di interesse verso questo tema, soprattutto in seguito alla crisi finanziaria globale, in primis il World Happiness Report delle Nazioni Unite, che ha analizzato Paese per Paese proprio questo punto, ponendo tra l’altro la nostra Italia al 48esimo posto (forse perché i servizi per la salute e i trasporti e l’istruzione hanno ancora un po’ di strada da fare?).

happiness

Ma c’è un ma.

Felicità sì, ma anche no

Tornando al suon di “Happy Now?” lanciato dalla rivista finanziaria inglese, il punto fondamentale pare sia un altro: quando si tratta di felicità, il mondo moderno dà con una mano e prende con l’altra.

Quelle miglia che i lavoratori a stelle e strisce si sono prefissati di macinare nel 2018 non è che comporteranno maggiori problemi di salute? Ne è sicuro uno studio condotto dall’Università del Surrey, in Gran Bretagna, insieme con l’Università di Lund, in Svezia, che tuona più o meno così: chi si sposta di continuo soffre di invecchiamento precoce, ha un maggior rischio di attacchi di cuore e soccombe a uno stress più emotivo, causato dalla solitudine e dal superlavoro. Nelle grandi organizzazioni, i frequenti viaggiatori d’affari possono essere tre volte più propensi a presentare un reclamo relativo all’assicurazione sanitaria per un problema psicologico rispetto ai loro colleghi.

Bene! E allora la felicità dove se n’è andata? Perché non finisce qui: secondo eMarketer entro la fine del 2018 un terzo della popolazione mondiale avrà un telefonino. Che bello! Tutti potranno rispondere a una e-mail urgente anche da casa, risparmiando tempo per la famiglia! Ma siamo sicuri che questo essere “always on”, “sempre accesi”, sia un toccasana per il nostro benessere? Un maggior numero di ricercatori ora tende a mettere in guardia contro i pericoli degli impiegati “sempre attivi”. Le e-mail non lette che le persone portano in giro in tasca o che si piazzano sul comodino di notte, sono diventate una fonte di ansia. Una vera e propria cultura competitiva che non aiuta affatto.

La connettività costante sta danneggiando la produttività”, sostiene Annie McKee dell’Università della Pennsylvania e autrice di “How to be Happy at Work”. Quando le persone non riescono a staccarsi dall’ufficio, diventano meno intelligenti e più ciniche.

Un passo avanti e due indietro, insomma. Ma l’Economist è fiducioso e noi ci accodiamo: nel 2018 molte società si renderanno conto che è controproducente aspettarsi un lavoratore attivo 24 ore su 24 ore e alcune detteranno addirittura delle linee guida sul lavoro fuori dall’ufficio. Bill Ridgers fa l’esempio di Daimler, una casa automobilistica, che ha certificato un sistema che consente ai lavoratori di eliminare automaticamente le e-mail quando sono in vacanza.

Quel che è certo, anche da questa analisi, è che per il benessere è fondamentale il lavoro e le condizioni in cui esso è svolto. E non solo: anche la solitudine ammazza quanto il veleno. E in questa epoca di social network, la “loneliness” è dietro l’angolo.

Indi per cui? La felicità nuovo parametro che affianchi il PIL, perché questo è incapace da solo – secondo gli esperti – di assemblare molte cose che davvero spiegano il senso di benessere per una popolazione? Staremo a vedere e concludiamo con Ridgers: “Cambiare sarebbe sarebbe già un buon motivo di felicità”.

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Germana Carillo

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