Le “colf” schiave straniere dell’Arabia Saudita: abusate, torturate e picchiate a morte dai datori di lavoro

In Arabia Saudita le colf straniere sono schiave dei datori di lavoro. Senza dignità né diritti, sono sfruttate, torturate e uccise

In Arabia Saudita i lavoratori stranieri sono schiavi dei datori di lavoro. Senza dignità né diritti, sono sfruttati, torturati e uccisi.

L’Arabia Saudita è sotto osservazione internazionale per le innumerevoli violazioni dei diritti umani nel territorio del regno. I lavoratori e le lavoratrici che migrano in Arabia Saudita per cercare fortuna non hanno diritti e vengono sfruttati/e dai datori di lavoro. Le domestiche straniere che lavorano al servizio delle famiglie saudite, soggette a torture e violenze che in certi casi portano alla loro morte o al suicidio, sono usate come donne-schiave e non possono fuggire da quelle case-prigioni. Quando riescono a tornare nel proprio paese di origine, sono ormai cadaveri irriconoscibili oppure si trovano a patire le conseguenze psico-fisiche di quelle terribili esperienze.

La kafala e lo sfruttamento degli stranieri

In Arabia Saudita, ma anche in altri paesi del Golfo, il mondo del lavoro si regge ancora sul vecchio sistema della kafala, un sistema di sponsorizzazione attraverso il quale il governo centrale delega ai datori di lavoro la gestione dei lavoratori stranieri e dei loro permessi di soggiorno. I lavoratori che abbandonano il datore di lavoro senza il suo consenso possono essere accusati di “evasione” e rischiano la reclusione e la deportazione.

Tale opaco quadro giuridico pone i lavoratori stranieri in una posizione di netta inferiorità e di totale asservimento rispetto ai datori di lavoro. Quest’ultimi, inoltre, grazie al loro status di cittadini, possono godere di numerosi benefit economici, tra cui la partecipazione alla redistribuzione della rendita petrolifera e l’accesso ai sussidi economici statali, da cui gli stranieri sono invece esclusi. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

In seguito alla crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19, i lavoratori stranieri sono stati pressoché esclusi dalle misure di sostegno all’economia attuate dalla casa regnante, condannandoli al precariato sociale. L’Arabia Saudita, il Qatar e l’Oman vorrebbero abolire la kafala o modificarne le regole, ma ciò metterebbe in discussione il tacito patto di fiducia stretto tra i cittadini e le famiglie regnanti.

I lavoratori-schiavi dell’Arabia Saudita

In Arabia Saudita, quindi, i lavoratori stranieri sono assimilabili a veri e propri schiavi. Senza garanzie, subiscono abusi fisici e psicologici, spesso non ricevono lo stipendio nonostante siano sfruttati in termini di orari e mansioni e viene loro negata la libertà di movimento, cioè viene loro impedito di lasciare l’Arabia Saudita per rientrare nel proprio paese di origine o per recarsi altrove. Le ripetute violazioni commesse verso la manodopera impiegata in Arabia Saudita, costituita soprattutto da migranti, rappresentano gravi violazioni dei diritti umani, spesso ignorate dalla giustizia saudita.

Il caso raro della condanna a morte per l’omicidio della domestica bengalese

Tuttavia, il regno saudita sta facendo timidi passi avanti. Lo scorso 14 febbraio, un tribunale penale dell’Arabia Saudita ha condannato a morte una donna saudita per aver ucciso la sua domestica bengalese. Per le organizzazioni in difesa dei diritti umani, si tratta di uno dei rari esempi di condanna di un datore di lavoro accusato di aver abusato di un lavoratore migrante in un paese mediorientale.

Ayesha al-Jizani, è lei la donna saudita condannata alla pena capitale per l’omicidio a Riyad della 40enne Abiron Begum Ansar, avvenuto nel marzo 2019, a due anni di distanza dall’arrivo di Begum in Arabia Saudita con la speranza di trovare una migliore occupazione e aiutare i suoi anziani genitori. Fin dall’inizio, la collaboratrice domestica ha subito indicibili torture e maltrattamenti di ogni genere.

Il marito di Jizani, Bassem Salem, è stato in carcere per 38 mesi ed è stato costretto a pagare una multa di 50.000 riyal sauditi per non aver aiutato Begum ad accedere alle necessarie cure mediche e per averla fatta lavorare illegalmente al di fuori dell’abitazione di famiglia.

Walid Basem Salem, il figlio della coppia, ha scontato sette mesi di pena in una struttura detentiva minorile.

La reazione delle autorità del Bangladesh

Il ministro degli Esteri del Bangladesh, AK Abdul Momen, ha accolto con favore il verdetto, ma ha sollecitato il governo saudita a indagare su altri casi di abusi e torture compiuti sui lavoratori domestici provenienti dal Bangladesh. I familiari della vittima hanno esortato il governo del Bangladesh ad assicurare alla giustizia gli intermediari che quattro anni fa avrebbero raggirato Begum, spingendola ad accettare quel posto di lavoro in Arabia Saudita.

Il Bangladesh è uno dei principali esportatori mondiali di manodopera e la sua economia dipende fortemente dalle rimesse che i lavoratori migranti inviano a parenti e familiari. Dal 1991, oltre 300.000 lavoratrici del Bangladesh sono emigrate in Arabia Saudita, ma molte di loro sono tornate a casa con testimonianze di abusi e storie di sfruttamento.

Per assicurarsi il reclutamento sul suolo saudita, bisogna pagare alte commissioni e la quota viene spesso pagata attraverso una rete di intermediari informali, che si arricchiscono grazie a questa rete di sfruttamento, che rende i lavoratori e le lavoratrici vere e proprie vittime di tratta. Negli ultimi cinque anni, in Arabia Saudita sono morte quasi 70 lavoratrici originarie del Bangladesh; di queste, oltre 50 si sarebbero suicidate.

Fonti: MEMO/MiddleEastEye

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