Gli ecomusei, un mondo da scoprire

gli ecomusei sono luoghi del tutto particolari, nati quando le istituzioni locali hanno comunicato a guardare con maggior interesse alle tematiche relative allo sviluppo locale, alla territorialità ed alla sostenibilità ambientale

All’interno del gran numero di musei italiani più o meno conosciuti (quanti di voi hanno visitato il piccolo ma interessante Museo del chiodo di Certaldo?) una menzione particolare la meritano gli ecomusei. Sono luoghi del tutto particolari, nati in Italia a partire dagli anni ’90 del Novecento, quando le istituzioni locali hanno comunicato a guardare con maggior interesse alle tematiche relative allo sviluppo locale, alla territorialità ed alla sostenibilità ambientale. In realtà il termine venne coniato negli anni ’70 da Hugues de Varine e Georges Henri Rivière, all’epoca direttore e consigliere dell’ICOM (The International Council of Museum) per indicare tutti gli strumenti utilizzati per tutelare la cultura delle società rurali, che rischiava di essere schiacciata dall’urbanizzazione e dai conseguenti cambiamenti sociali.

Ufficialmente, l’ecomuseo viene definito come “un’istituzione culturale che assicura in forma permanente, su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di ricerca, conservazione e valorizzazione di un insieme di beni naturali e culturali, rappresentativi di un ambiente e dei modi di vita che lì si sono succeduti” (Carta degli Ecomusei); si capisce quindi come il concetto di ecomuseo si leghi strettamente alle istanze di tutela e salvaguardia del patrimonio immateriale, che consiste in tutto quell’insieme di credenze, tradizioni, miti, saghe e saperi che accomunano una comunità, e che spesso rischiano di scomparire assieme a coloro che li custodiscono. La loro funzione è quindi quella di testimoniare, ricostruire e promuovere la cultura materiale del territorio, e capire come questa abbia caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio.

La caratteristica principale degli ecomusei consiste quindi, paradossalmente, nel non poter essere considerati come veri e propri musei: non hanno mura e non sono circoscrivibili in uno o più edifici; il patrimonio che conservano e valorizzano è spesso intangibile e può essere soggetto a continue variazioni. Come i musei d’arte o di archeologia rappresentano però una ricchezza inestimabile e possono essere considerati come elementi di sviluppo culturale, sociale e anche economico. Per le caratteristiche uniche di ogni istituzione infatti, gli ecomusei possono rappresentare un valido attrattore turistico: un turismo ovviamente sostenibile, che non consuma ma anzi contribuisce a far vivere (e rivivere) il sapere di un luogo preciso. Le possibilità che offrono gli ecomusei italiani sono infatti molteplici: si va da quelli che sono caratterizzati da rilevanti aspetti ambientali e paesaggistici, passando per quelli legati ad iniziative, sagre e feste peculiari fino ad arrivare a quelli che si caratterizzano per la presenza, all’interno del proprio territorio, di produzioni enogastronomiche di eccellenza e di prodotti tipici con certificazioni di qualità (DOP, DOC, IGP…).

Per quanto riguarda l’Italia, il Piemonte è stata la prima regione ad istituire degli ecomusei (con la Legge Regionale 14 marzo 1995, n. 31), seguito presto da Lombardia, Trentino e praticamente da tutte le altre regioni (tranne Marche e Molise, che ancora non ne hanno attivati). Qualche nome? L’ecomuseo del Chianti in Toscana, quello del sale a Trapani e l’ecomuseo d’Abruzzo, all’interno del parco Sirente-Velino…tutti meritano una visita.

Sara Pierantoni

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