Com’eri vestita? A Milano la mostra con gli abiti delle donne che hanno subito violenza

Ti hanno violentato, ok, ma come eri vestita? Come se fosse colpa delle donne subire molestie fino allo stupro. Dall’8 marzo possiamo vedere che abiti indossavano le vittime. Perché una domanda del genere non sia mai più fatta ad una donna che ha subito violenza

Ti hanno violentato, ok, ma come eri vestita? Come se fosse colpa delle donne subire molestie fino allo stupro. Dall’8 marzo possiamo vedere che abiti indossavano le vittime. Perché una domanda del genere non sia mai più fatta ad una donna che ha subito violenza.

Una gonna corta, un abito scollato? O magari avevi i pantaloni ma attillati e magari hai strizzato l’occhio a qualcuno. Domande subdole e a volte proprio esplicite, che insinuano la responsabilità di chi ha subito un’aggressione, sollevando la coscienza dell’aggressore, magari perché in preda ad una “tempesta emotiva”. Basta, ecco come erano vestite le donne che ora non saranno più le stesse, come se questo cambiasse qualcosa.

Gli abiti non sono naturalmente quelli veri delle vittime, ma fedeli ricostruzioni sulla base delle loro descrizioni che, purtroppo, a volte sono state costrette a rendere pubbliche. Il progetto nasce nel 2013 da un’idea di Jen Brockman, direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale di Kansas, e di Mary A. Wyandt-Hiebert responsabile di tutte le iniziative di programmazione presso il Centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas, ed è stato diffuso in Italia dall’Associazione Libere Sinergie.

Per dire basta, basta pensare che una violenza sia stata provocata, uno stupro avvenuto quasi su invito. Una donna è libera di vestirsi come vuole e se viene molestata o peggio ancora violentata, è solo perché ha avuto la sfortuna di incontrare uno o più delinquenti.

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Vestiti normalissimi, con i quali andiamo a lavoro, a cena da amici o magari usciamo per compere nella routine quotidiana. Ma la violenza è arrivata lo stesso, con danno fisico e psicologico delle vittime. Che poi devono anche sentirsi giudicate da chi pensa che sia colpa loro.

“Bisogna essere in grado di suscitare delle reazioni, all’interno dello spazio della mostra, simili a quelle riportate – spiega la Brockman – per indurre le visitatrici a pensare “ho questi indumenti appesi nel mio armadio!” oppure “ero vestita così questa settimana” […]. Non è l’abito che si ha addosso che causa una violenza sessuale ma è una persona a causare il danno. Essere in grado di donare serenità alle vittime e suscitare maggiore consapevolezza nel pubblico e nella comunità è la vera motivazione del progetto”.

Sì perché le vittime hanno bisogno di conforto e non di chi le giudica. E anche se per caso si fossero vestite in modo più succinto nessuno ha il diritto di abusare di loro, per nessun motivo. Se si dice no è no. In Svezia ora bisogna specificare il consenso esplicito o con le parole o con i fatti, altrimenti è stupro lo stesso.

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Quando tutti avremo questa certezza, solo allora, avremo costruito una società giusta.

La mostra è partita a Milano l’8 marzo e proseguirà in varie città d’Italia fino al 25 novembre. Per il programma completo è sufficiente collegarsi al sito di Libere Energie.

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Roberta De Carolis

Foto: Libere Energie

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