Il commovente tema di Angelica sulla nonna malata di Alzheimer premiato al Senato

E’ arrivato in Senato, dove ha ricevuto un premio, il tema di Angelica, ragazza friulana che ha scritto un breve commovente racconto dedicato alla nonna malata di Alzheimer che oggi non c'è più.

E’ arrivato in Senato, dove ha ricevuto un premio, il tema di Angelica, ragazza friulana che ha scritto un breve commovente racconto dedicato alla nonna malata di Alzheimer  che oggi non c’è più.

Angelica ha 15 anni ed è un allieva dell’Istituto Magrini Marchetti di Gemona. È lei che ha scritto un tema considerato il più bello d’Italia nell’ambito del concorso “Io e i nonni“, indetto dall’associazione Nonni 2.0 e dal giornale “Tempi”. Uno scritto che ha commosso tutti e che le ha permesso di ricevere un premio a Palazzo Madama, di fronte alla giuria presieduta dal poeta Davide Rondoni.

I nonni sono figure di riferimento importanti per quanto riguarda l’affettività e l’educazione ma anche simboli di tradizioni e valori famigliari che si tramandano di generazione in generazione. Angelica è riuscita a condensare tutto questo e tanto altro in una serie di ricordi e riflessioni molto toccanti inserite nel suo tema in cui ricorda la nonna Elsa che per lei è stata una figura di riferimento importante, nonostante la terribile malattia che l’aveva colpita.

Angelica ricorda i momenti più belli e dolci con la nonna, esprime però anche la rabbia per quello che è accaduto, il senso di impotenza, il dolore di vedere la sua stanza vuota dopo la morte, di non poter più baciare la nonna e tanto altro in un mix di emozioni e considerazioni davvero belle e sentite.

Pronti a piangere? Ecco le parole della ragazza friulana dedicate alla nonna:

“Avevi delle mani bellissime, sai, a volte mi sembra ancora di vederle mentre stringono la stoffa dei pantaloni del pigiama che indossi. Ricordo anche quello; come ricordo la tua tuta grigia e pesante e tutte le volte in cui papà ti ha nascosto le pastiglie nei fagiolini pur di fartele prendere. Ti vedo sulla poltrona, seduta accanto al nonno, e poi sul letto, mentre Loredana ti cambia. Ti sento cantare i ritornelli che avevi imparato da bambina, e mentre inutilmente cerchi tua madre. Penso a tutte le volte in cui, come se una vita non fosse bastata a distinguere le fattezze delle tue nipoti, mi hai chiamata Anna, nome breve e facile da tenere a mente, anche se io non capivo. Ripenso a quando, prima di Loredana, Renata ti distraeva con le sue battute stupide o ti cantava quei motivetti senza senso che alla fine a casa abbiamo imparato tutti, e ti faceva indossare i miei occhiali da sole tondi.
Tu ridevi sempre, in ogni occasione, questo non è mai cambiato. Se mi concentro riesco anche a riprovare il senso d’impotenza e la stessa rabbia per ciò che ti succedeva e che trovavo così profondamente ingiusto, dato che eri sempre stata gentile con tutti. Sento pesare l’angoscia delle notti passate in bianco quando stavi male, le ore interminabili, in cui tutto era buio e silenzioso, trascorse col cuscino premuto sulle orecchie nel terrore che il telefono squillasse. Ricordo quel pomeriggio in cui avevi iniziato a cullare la mia bambola, per un qualche istinto materno che in te era sempre stato innato, e tutti mi avevano chiesto di lasciartela, ma io non avevo voluto. Me ne vergogno moltissimo, ma perdonami, ero piccola. Ora come ora, di quelle bambole te ne regalerei a migliaia. Sai, tutto riaffiora: le svariate occasioni nelle quali Anna mi ha ricordato che, se proprio non ne potevo fare a meno, quando stavi male dovevo piangere in bagno o in camera, ma mai di fronte al nonno; la gioia enorme nel vederti a casa, anche se con il sondino; i baci sulla fronte e gli omogeneizzati.
Vorrei poter raccontare di gite al parco e fiabe lette, di baci della buonanotte e di te che vieni a prendermi alla fermata del pullmino, di pomeriggi passati a giocare e di pensieri condivisi, ma non sarebbe la nostra storia. Non lo sarebbe perché a noi non è stato concesso il tempo di fare queste cose, non ne abbiamo avuto l’occasione. Ma sono infinitamente grata per aver avuto quella di amarti con tutto l’amore del mondo, di essermi potuta rendere conto di quanto una persona possa essere fondamentale anche se non si ricorda il tuo nome e non ti riconosce più. Mi accontento del filmino tutto sgranato della mia prima Pasqua, dove mi tieni in braccio e ridendo dici: «Ma cja ce biela fruta» («Ma guarda che bella bimba»).
Anche la tua risata era bellissima, in realtà eri bella tu, di uno splendore disarmante, lo sei sempre stata. Nonostante i giochi che non abbiamo fatto, i discorsi mai pronunciati, gli abbracci a senso unico e i muri che c’erano senza che nessuno li avesse eretti, sei il mio primo ricordo: tu e io sui sedili posteriori dell’auto a cantare.
Non poterti più venire a baciare la sera mi ha svuotata completamente, per settimane non sono più stata capace di guardare nella tua stanza, sapendo di trovarci un letto vuoto.
Scrivere di te è sprofondare tra ricordi che ormai mi sembrano lontanissimi, significa tornare a inquadrare nitidamente il tuo viso, provare in tutta la loro concretezza sensazioni che credevo di aver sepolto. È doloroso ma è bellissimo, è come una presa di coscienza. Mi hai segnata profondamente, eri completamente assente e allo stesso tempo avvertivo potentissima la tua presenza, eri immobile eppure percepivo in te un’energia quasi violenta.
Ne avessi ancora l’occasione, dipingerei per te tutto quello che non hai visto, ti racconterei tutto ciò che ti sei persa dal duemila all’anno scorso, ma soprattutto ti farei viaggiare, ti porterei ovunque pur di farti mettere il naso fuori dalla tua Carnia. Anche se alla fine tutto conduce lì, unico luogo dal quale nemmeno io riesco ad allontanarmi per lungo tempo, dove ci sono le montagne che hai visto sin da bambina, il lago dove hai portato i tuoi figli a fare il bagno, e tutto quello che mi fa pensare a te, che sei casa.”

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Francesca Biagioli 

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