A scuola di empatia contro il bullismo

Come disinnescare i bulli coltivando fin da piccoli il seme dell'empatia

Il 16 maggio scorso, presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma, si è tenuto un incontro sul bullismo, “Io bullo da solo. Insieme contro il bullismo“. L’evento, organizzato dal Comitato Unico di Garanzia e dalla Commissione di Ateneo per l’inclusione degli studenti con disabilità e DSA, è stato un modo per promuovere la tolleranza e la prevenzione di un fenomeno purtroppo in costante crescita.

Sono intervenuti diversi esperti, da Alberto Siracusano, ordinario di psichiatria presso la facoltà di Medicina dello stesso Ateneo, a Mauro Scicchitano, psicologo e psicoterapeuta, che hanno raccontato il bullismo dal punto di vista degli “addetti ai lavori”, come fenomeno sociale e psicologico. Ci sono state poi svariate testimonianze di persone che hanno avuto a che fare con il bullismo, madri che hanno avuto i figli bullizzati a scuola, studenti e studentesse che, soprattutto per via delle loro particolarità fisiche, sono stati oggetto di bullismo negli anni della scuola.

immagine

Particolarmente toccante è stato l’intervento di Teresa Manes, il cui figlio, Andrea Spezzacatena, a causa delle continue oppressioni da parte dei compagni di scuola, nel novembre 2012 si tolse la vita. Andrea era un ragazzo brillante, estroso, molto sensibile, “una mente” come ama ricordarlo sua madre, che racconta cosa ha portato il ragazzo ad una decisione così drastica ed irrevocabile. Dai più Andrea sarà conosciuto non con il suo nome, ma come “il ragazzo dai pantaloni rosa”, perché questo, ma non solo, era uno dei motivi perché fosse preso di mira dai compagni: un semplice paio di pantaloni rosa, o meglio un jeans che per sbaglio era rimasto scolorito dopo un lavaggio in lavatrice e che Andrea aveva comunque indossato senza problemi, è bastato per etichettarlo come gay (sebbene lui non lo fosse) e dare il via ad una escalation di prese in giro e di insulti, raccolti addirittura in una pagina Facebook che aveva il solo scopo di irridere Andrea e il suo modo di essere.

immagine

La testimonianza della signora Manes, che dopo la morte del figlio ha deciso di reagire scrivendo dei libri in cui racconta la sua lotta al bullismo (“Andrea – Oltre il pantalone rosa” e “Punto, a capo“) è stata particolarmente preziosa in quanto ha aperto importanti spunti di riflessione.

Primo fra tutti, sull’importante ruolo dei social network nel fenomeno del bullismo. Le regole di Facebook impongono di non poter aprire un profilo prima dei 13 anni. Eppure molti ragazzini lo aprono inserendo una data di nascita falsa. Iniziano così ad usare un mezzo che probabilmente è troppo più grande di loro, così come WhatsApp, divenuto un modo per comunicare, ma in maniera disordinata e compulsiva. I ragazzi usano questi mezzi in maniera inconsapevole e in questo modo nelle giovani generazioni si stanno purtroppo alterando dei meccanismi di comunicazione e di interazione sociale, che fino all’avvento degli smartphone richiedevano tempo e contatto reale per poter essere sviluppati.

Oggi è un attimo iniziare un litigio su WhatsApp o su Facebook e vederlo degenerare in insulti, foto modificate con lo scopo di denigrare e stigmatizzare, gogne mediatiche che in pochissimo tempo si diffondono viralmente tra i compagni di scuola e gli amici del quartiere, per poi magari finire direttamente nella Rete (tutti ricorderanno il caso di Tiziana Cantone, i cui video intimi finirono in rete, diffondendosi in maniera incontrollata, e furono addirittura oggetto di parodie. Per questo Tiziana si tolse la vita, non potendo più neppure uscire di casa, sopraffatta dal circuito infernale in cui era stata coinvolta suo malgrado).

Non avendo più di fronte l’oggetto delle nostre offese, dunque non potendolo vedere negli occhi, non potendo vedere e percepire le sue reazioni alle nostre parole, non ci rendiamo conto di quanto possa fare male ciò che scriviamo e pubblichiamo. Si è alzata l’asticella di ciò che viene ritenuto uno “scherzo”, una “ragazzata” e pertanto tollerato: minimizzando, si giustifica chi in realtà sta compiendo veri e propri atti di bullismo e lo si invita, tacitamente, a continuare.

immagine

Si sta perdendo sempre di più un ingrediente fondamentale nei rapporti con gli altri: l’empatia, ossia quella capacità interiore di mettersi nei panni dell’altro, sentire ciò che l’altro sente e comportarsi in modo da rispettare quei sentimenti. Un problema molto sentito nelle società del Nord Europa, se è vero che in Danimarca esiste da tempo nelle scuole “l’ora di empatia”, o meglio “l’ora di classe” (Klassens tid), in cui è possibile sedersi attorno ad una torta fatta dagli stessi studenti e parlare dei loro problemi, individuali o di gruppo.

Sicuramente un simile percorso sarebbe molto, molto utile anche nella scuola italiana, dove i fenomeni di bullismo e di cyberbullismo sono in aumento e dove l’empatia è una qualità che in pochissimi ormai posseggono. Il giorno del convegno il Dott. Scicchitano ha proiettato un video, alla vista del quale molti tra gli studenti presenti sono scoppiati in sciocche risate, quando invece c’era ben poco da ridere. Lo stesso psicoterapeuta si è stupito di questo, dichiarando che era la prima volta che gli capitava una cosa del genere. Purtroppo per lui, invece, le risatine e le prese in giro nei confronti di chi invece sta soffrendo per una parola, un insulto, una foto modificata ad arte, per quanto mi riguarda, sono all’ordine del giorno…

Il video era questo:

Si capisce, dunque, quanto sia importante lavorare fin da piccoli sull’empatia, per poter sentire gli altri, anche quelli che apparentemente sono diversi da noi, semplicemente come esseri umani, che in quanto tali vanno rispettati ed amati. Non importa il loro orientamento sessuale, non importa che si uniformino o meno a dei vetusti stereotipi (e anche su questo c’è ancora molto da lavorare: chi stabilisce che i pantaloni rosa indichino una scarsa mascolinità? Eppure per questo Andrea Spezzacatena è stato additato come gay, nonostante non lo fosse, e la sofferenza per le violenze psicologiche subite lo ha spinto al suicidio. Chi stabilisce che una donna che ama fare sesso orale col proprio partner sia una prostituta, una poco di buono? Eppure per questo Tiziana Cantone ha subito la gogna mediatica dell’intero web e ha scelto il suicidio per liberarsi dalla profonda angoscia che una tale situazione le aveva provocato), non importa quali diversità fisiche abbiano: il cuore, come diceva Tiziano Terzani, è uguale per tutti.

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin
Iscriviti alla newsletter settimanale
Seguici su Facebook