Il suicidio dell’adolescente Molly Russell deve farci riflettere sugli effetti negativi dei social: serve una riforma ADESSO

Molly aveva 14 anni quando si è tolta la vita nel 2017, dopo aver visto migliaia di post che ritraevano atti di autolesionismo e suicidi su piattaforme, tra cui Instagram e Pinterest

Si è tolta la vita a 14 anni, complici i social. Così una sentenza parla chiaro e crea un prezioso precedente. Siamo nel Regno Unito e qui nel 2017 la giovanissima Molly Russell si suicidò dopo aver visionato per mesi video e immagini che l’hanno spinta all’atto fatale. Colpa, quindi, dei social network, soprattutto di Instagram.

A dirlo è stata l’inchiesta presentata ai primi di ottobre dal Coroner (una sorta di medico legale) inglese Andrew Walker, messa a punto proprio per approfondire e delineare le circostanze del suicidio della ragazza.

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Ebbene, secondo le indagini, dopo un lungo stato depressivo, Molly sarebbe arrivata a un atto di “autolesionismo estremo”, in un pericoloso circolo vizioso alimentato da contenuti social espliciti su suicidio, depressione e autolesionismo.

Le immagini di autolesionismo e suicidio che ha visto, non avrebbero dovuto essere visibili a un bambino, dice Walker.

Quei contenuti che succhiano la vita

Secondo Walker, Instagram e Pinterest hanno utilizzato algoritmi che hanno portato a “periodi di abbuffata” di materiale, alcuni dei quali sono stati selezionati e forniti a Molly senza che lei lo avesse richiesto.

È probabile che questi periodi di abbuffata abbiano avuto un effetto negativo su Molly. Alcuni di questi contenuti romanticizzavano atti di autolesionismo da parte dei giovani su se stessi. Altri contenuti cercavano di isolare e scoraggiare la discussione con coloro che potrebbero essere stati in grado di aiutare.

È probabile, insomma, che il materiale di cui sopra visto da Molly, già affetta da una malattia depressiva e vulnerabile a causa della sua età, abbia influito negativamente sulla sua salute mentale e abbia contribuito alla sua morte in modo più che minimo.

Di fatto, su Instagram la ragazzina avrebbe commentato, salvato e condiviso 2.100 post riguardanti depressione e suicidio e dei sei mesi totali sono stati solo 12 i giorni quelli che Molly ha trascorso senza interagire con contenuti potenzialmente pericolosi. Inoltre, è risultato che la 14enne si era iscritta al social a 12 anni, quando invece l’età minima di accesso è 13 anni.

Cosa possiamo fare noi?

Pretendete che la cultura aziendale tossica al centro della più grande piattaforma di social media del mondo cambi. La storia di Molly è la storia di migliaia di altri ragazzini, lasciati nella loro stanza, chiusi e soli, divorati dagli smartphone. E se si fa una rapidissima ricerca su Insagram digitando “suicidio” ci si imbatte in immagini scure, cupe, in frasi contorte.

È giunto il momento che ci sia una chiara indicaizone di legge sulla sicurezza online, per iroteggere i nostri giovani invece di consentire alle piattaforme social media di dare la priorità ai loro profitti monetizzando la miseria dei bambini e dei ragazzi.

Di contro, noi adulti dobbiamo necessariamente fare la nostra parte in famiglia. I bimbi e gli adolescenti si trovano in uno spazio di sviluppo in cui è di fondamentale importanza un contatto regolare con i loro coetanei e siano in grado di sviluppare relazioni strette e continue anche con gli adulti fuori casa, come i loro insegnanti o i loro allenatori. Intanto noi cerchiamo di parlare loro e di ascoltarli e facciamoci aiutare a riconoscere la depressione e ad imparare i segni premonitori di atti estremi.

Teneteli sotto controllo, insomma, e, se capita di vedere video che non vanno bene per loro, segnalatelo alla stessa piattaforma. Ci sono poi tutta una serie di organizzazioni dedicate ad aiutare chi ha bisogno in diversi Paesi e aree geografiche. Si tratta di partner di servizi riconosciuti specializzati nella risposta in caso di crisi.

QUI Google fornisce un elenco.

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Fonti: BBC / Children’s Commissioner

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