Quanti cibi scaduti consumate? Tutto ciò che c’è da sapere sulle date di scadenza in etichetta

Cibi scaduti: più della metà degli italiani mangia gli alimenti oltre il limite di tempo indicato in etichetta o se la confezione non è danneggiata e se il prodotto sembra comunque in buono stato

Cibi scaduti: gli italiani ne hanno piene le dispense. Più della metà dei nostri compatrioti, infatti, mangia gli alimenti oltre il limite di tempo indicato in etichetta o se la confezione non è danneggiata e se il prodotto sembra comunque in buono stato.

È il dato che viene fuori da un’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Eurobarometro del settembre 2015 dai quali emerge che solo il 32% degli italiani si sbarazza dei cibi scaduti, mentre l’11% decide in base al tipo di alimento. In particolare, nel caso degli spaghetti (il piatto più tradizionale), la percentuale degli italiani che non li mangiano oltre la data indicata scende al 30%, mentre il 70% li porta in tavola dopo averne verificato le condizioni.

Ma cosa c’è alla base di questi comportamenti? Molto probabilmente è tutto da imputare alla scarsa conoscenza delle informazioni che vengono fornite in etichetta e soprattutto alla scarsa conoscenza del diverso significato delle diciture tra “da consumarsi preferibilmente entro il” e “da consumarsi entro”.

In particolare, per quest’ultimo termine ben il 27% ha comportamenti diversi a seconda del tipo di alimento mentre il 20% ritiene erroneamente che il cibo può essere consumato anche dopo la data indicata ma potrebbe non essere alla massima qualità.
Sappiate invece che “da consumarsi entro” indica la data entro cui il prodotto deve essere consumato e anche il termine oltre il quale un alimento non lo potete più trovare in commercio. Questa data di consumo – precisa la Coldiretti – non deve essere superata altrimenti ci si può esporre a rischi importanti per la salute. Si applica ai prodotti preconfezionati, rapidamente deperibili come il latte fresco (7 giorni) e le uova (28 giorni). È indicata dal giorno, il mese ed eventualmente l’anno e vale indicativamente per tutti i prodotti con una durabilità non superiore a 30 giorni.

Il cosiddetto “Termine Minimo di Conservazione” (TMC) riportato con la dicitura “Da consumarsi preferibilmente entro” indica, invece, la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà organolettiche e gustative o nutrizionali specifiche in adeguate condizioni di conservazione, senza con questo comportare rischi per la salute in caso di superamento seppur limitato della stessa. Tanto più, però, ci si allontana dalla data di superamento del TMC, tanto più vengono a mancare i requisiti di qualità del prodotto, come il sapore, l’odore o la fragranza.

A stabilire la durata sono autonomamente gli stessi produttori, in base ad alcuni fattori che vanno dal trattamento tecnologico alla qualità delle materie prime, dal tipo di lavorazione e di conservazione al tipo di imballaggio. E sta poi a ciascuna azienda svolgere delle prove di laboratorio sui propri prodotti, per misurare la crescita microbica e valutare dopo quanti giorni i valori organolettici e nutrizionali cominciano a modificarsi in modo sostanziale.

Insomma, quello che a noi resta da fare è leggere sempre le etichette, stare attenti e rispettare, almeno in linea di massima, le date riporatate. Parola d’ordine, ovvio, resta quella di non sprecare, per cui bando alle liste chilometriche di spesa e all’acquisto di cose che sapete che non consumerete subito. E per recuperare cibo ancora in buono stato, sappiate che in Italia una delle iniziative più valide per recuperarlo è rappresentata dai last minute market, che accumulano gli alimenti scartati dalla grande distribuzione per via della data di scadenza, ma ancora commestibili e donare a persone in condizioni disagiate.

Germana Carillo

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