Auto ad acqua: realtà o pura utopia?

Un paio d'anni fa, dal Giappone era arrivata una notizia che – a una prima occhiata - aveva del rivoluzionario: lo sviluppo della Genepax, vettura che prendeva il nome di un'azienda del Sol Levante che, a loro dire, aveva inventato “Un'auto che non fa altro che andare ad acqua”. Secondo quanto si era detto all'epoca, la vettura, mossa da un motore elettrico, alimentato ad acqua, avrebbe percorso con un solo litro ben 80 km, grazie a un generatore in grado di convertire in energia elettrica l'acqua contenuta in un piccolo serbatoio.

Nella società ancora rurale dei secoli passati, i ciarlatani presentavano l’elisir di lunga vita. Oggi, che l’età media si è alzata, e un aumentato benessere ci ha fatto spostare i nostri desideri verso altri aspetti della vita quotidiana, ecco che di tanto in tanto si affacciano alla ribalta internazionale gli inventori da cortile che promettono il miracolo della mobilità a zero emissioni con l’auto che va ad aria compressa (della quale ci siamo occupati nei mesi scorsi), o, addirittura, ad acqua.

Un’auto che va ad acqua? Mica tanto facile…

Un paio d’anni fa, dal Giappone era arrivata una notizia che – a una prima occhiata – aveva del rivoluzionario: lo sviluppo della Genepax, vettura che prendeva il nome di un’azienda del Sol Levante che, a loro dire, aveva inventato Un’auto che non fa altro che andare ad acqua”. Secondo quanto si era detto all’epoca, la vettura, mossa da un motore elettrico, alimentato ad acqua, avrebbe percorso con un solo litro ben 80 km, grazie a un generatore in grado di convertire in energia elettrica l’acqua contenuta in un piccolo serbatoio.

In attesa di vedere sulle nostre strade l’automobile che va ad aria (compressa? No, sarebbe troppo facile… e gli esperimenti in questo senso ci sono già stati), sulle prime verrebbe da pensare, sull’onda dell’entusiasmo, che una nuova era si apra per il futuro della mobilità.

Ci spiace sfatare questo mito: per il momento, il massimo che ci possiamo attendere sono le auto ibride, elettriche, a celle di idrogeno o a bioetanolo. Che, poi, le batterie vengano alimentate da pannelli solari, può benissimo essere un motivo in più per investire nella mobilità “pulita”. Ma che un’auto funzioni ad acqua…

Non si può andare contro la fisica

Tecnicamente, un’auto alimentata ad acqua non è la cosa più semplice da realizzare. Nell’acqua c’è ‘idrogeno, sostanza infiammabile, che può fornire energia, ma questa viene liberata quando si forma dell’acqua. E l’acqua, come sappiamo tutti, non brucia.

Certo, c’è l’elettrolisi: si ottiene idrogeno, o una miscela di idrogeno e ossigeno (“Gas di Brown”), in seguito a un procedimento che deve essere alimentato da energia elettrica. Siccome, poi, la combustione è l’esatto contrario dell’elettrolisi, ecco che l’energia rilasciata nella combustione equivale a quella consumata per l’elettrolisi, perché per dividere l’acqua in idrogeno e ossigeno occorre più energia. In poche parole: anche ipotizzando un’efficienza energetica del 100%, non si avrebbe energia sufficiente per muovere il veicolo.

È un fatto prettamente fisico, lo spiega la Prima Legge della Termodinamica. Come dire: non si possono sostenere esperimenti di questo tipo, proprio perché l’elettrolisi e la combustione coincidono.

Quanto dovrebbe essere grande il dispositivo per l’elettrolisi, dunque? E quanta acqua occorrerebbe? Di sicuro, una quantità tale da scoraggiare qualsiasi tentativo di realizzare un veicolo che va ad acqua.

La “favola” Genepax era stata già analizzata, in passato: un materiale (ma non si specificava quale) contenuto nell’elettrodo provocava una reazione chimica che divideva l’idrogeno dall’ossigeno. L’idrogeno prodotto forniva energia da trasferire nella batteria che, a sua volta, alimentava il motore. In realtà, come poi spiegò – in maniera più obiettiva – Kiyoshi Hirasawa, presidente della Genepax, era stata utilizzata una lega metallica (a base di litio, sodio, potassio, calcio o magnesio): questa, a contatto con l’acqua, provocava una reazione di ossidazione a temperatura ambiente. La questione – base è che questo componente metallico è destinato ad esaurirsi. Quindi, andrebbe sostituito, per riprendere i processi di ossidazione.

Teoria” non fa sempre rima con “pratica”

auto ad aria compressa

Detta così, dunque, è più credibile. Ma non sempre gli annunci sono effettivamente seguiti da applicazioni pratiche. Un esempio per tutti? La MDI, l’auto ad aria compressa. Più volte annunciato, la produzione del quadriciclo francese realizzato dall’azienda franco – lussemburghese MDI (titolare della licenza “girata” alla Catecar), nei mesi scorsi ha subito un nuovo rinvio. Avrebbe dovuto essere disponibile, a partire da marzo 2011, negli stabilimenti di Reconville, in Svizzera.

Ben diversa, invece, è la situazione dall’altro capo del mondo, dove il tecnico italiano (ma residente da tempo in Australia) Angelo Di Pietro da circa trent’anni, con la sua Engineair, persegue la tecnologia del motore ad aria compressa. Ai mercati generali di Melbourne operano dei carrelli per trasporto merci alimentati con il motore realizzato da Di Pietro. In più, il tecnico d’origine italiana ha dato il via a un progetto relativo a una moto: la O2 Pursuit, anch’essa alimentata ad aria compressa.

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