Microplastiche in frutta e verdura: studio italiano per la prima volta scopre quante ne ingeriamo

Microplastiche negli ortaggi e nella frutta. Un nuovo studio italiano per la prima volta ha individuato le concentrazioni di microplastiche contenute nella frutta e nelle verdure più consumati in Italia.

Si tratta della prima ricerca al mondo ad aver quantificato la quantità di plastica presente nella parte edibile di alcuni alimenti. condotta dal gruppo del Laboratorio di Igiene ambientale e degli alimenti dell’Università di Catania in collaborazione col Laboratoire de Biochimie et Toxicologie Environnementale di Sousse in Tunisia, è stata pubblicata su Environmental Research/Elsevier.

Nello studio del Laboratorio etneo, diretto dalla prof.ssa Margherita Ferrante, sono stati esaminati mele, pere, patate, carote, lattuga e broccoli, aprendo uno scenario mai prima d’ora ipotizzato. Che le microplastiche fossero ovunque, anche nell’acqua, è ormai noto ma che anche frutta e verdura fossero contaminati è una novità. Esse assorbono tali minuscole particelle dal suolo e le trasportano attraverso i tessuti vegetali, finendo poi sulla nostra tavola.

Gli alimenti esaminati sono stati scelti perché sono i più consumati (in media uno al giorno) permettendo ai ricercatori di valutare sia le assunzioni alimentari di particelle microplastiche che di nano-materie plastiche, ancora più piccole. I campioni sono stati acquistati a Catania, in negozi diversi, dai supermercati ai piccoli fruttivendoli (3 fruttivendoli, 1 supermercato e 2 negozi a km zero).

“Ci siamo concentrati sull’esposizione nella dieta con l’obiettivo di valutare il numero e la dimensione (<10 μm) delle microplastiche nelle verdure e nella frutta consumate più comunemente, in relazione anche alla loro assunzione giornaliera raccomandata. Infine, abbiamo calcolato le assunzioni giornaliere stimate (EDI) per adulti e bambini per ogni tipo di frutta e verdura”.

Promossi e bocciati

Le mele e carote erano rispettivamente frutta e verdura più contaminate. In linea di massima, la frutta ha mostrato la più alta contaminazione di microplastiche (<10 μm) rispetto alle verdure. Al contrario, l’alimento con una minore quantità di microplastiche era la lattuga.

Il frammento di microplastica di minori dimensioni è stato trovato nei campioni di carota (1,51 μm), mentre i più grandi sono stati individuati nella lattuga (2,52 μm).

Sia negli adulti che nei bambini, l’assunzione giornaliera stimata di microplastiche risultava era più elevata dopo aver mangiato mele e al livello più basso dopo aver mangiato carote ma i bambini mostravano una maggiore assunzione di particelle per via del loro peso corporeo inferiore.

“I dati mostrano una contaminazione variabile con dimensioni medie delle microplastiche da 1,51 a 2,52 microns e un range quantitativo medio da 223mila (52.600-307.750) a 97.800 (72.175-130.500) particelle per grammo di vegetale rispettivamente in frutta e verdura” spiegano gli autori della ricerca.

La ricerca ha dimostrato che l’impatto dei rifiuti plastici presenti nei mari e nei corsi d’acqua, sugli habitat naturali e sulla fauna selvatica è un problema globale e l’EFSA (European Food Safety Autority), di concerto con la Commissione europea, ha già richiesto un primo passo verso una valutazione dei rischi per i consumatori legati alla presenza di microplastiche e nanoplastiche negli alimenti, in particolare nei prodotti ittici.

Per questo il gruppo di ricerca sta ampliando gli alimenti investigati:

“Attualmente è in fase di elaborazione un ulteriore articolo sui dati derivanti dai filetti eduli di pesce. L’articolo riporta, inoltre, le Estimated Daily Intakes (Assunzioni giornaliere stimate) per adulti e bambini, divenendo di fatto il primo studio che quantifica l’esposizione a microplastiche inferiori ai 10 microns della popolazione generale mediante l’ingestione di tali alimenti”.

Secondo gli autori dello studio,

“sulla base dei risultati ottenuti, è urgente e importante eseguire studi tossicologici ed epidemiologici per studiare i possibili effetti sulla salute umana”.

Fonti di riferimento: Università di Catania, Elsevier, ENI CBCMED

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