Fast fashion meno fast: così Primark prova ad allungare la vita dei suoi vestiti

La fast fashion prova ad essere meno fast, ma non per questo l’assolviamo. È ancora tanta la strada da fare per dire addio al greenwashing e cominciare, per dirne una, a pagare ai lavoratori un salario minimo di sussistenza

Dopo la discussa felpa in plastica riciclata e la collezione in cotone sostenibile, il gigante irlandese Primark ci riprova e annuncia anche la sua prima collezione circolare, ovvero la nuova linea di “abiti che sono stati progettati e realizzati per essere amati e indossati più a lungo e, alla fine, riciclati”.

Da metà aprile, infatti, saranno disponibili questi nuovissimi “prodotti sostenibili” progettati in linea con il Circular Product Standard di Primark, che a sua volta si baserebbe sui principi delineati dalla Ellen MacArthur Foundation, si legge nella nota.

Ma vediamo di cosa si tratta.

La nuova collezione Primark

La nuova collezione Primark comprenderà 35 prodotti, i cui prezzi variano da un minimo di 5 euro a un massimo di 25 (e già il prezzo ultrabasso è sinonimo di sostenibilità minima o pari a zero).

Quanto ai materiali di provenienza, i capi sono realizzati utilizzando almeno il 95% di cotone proveniente dal Primark Sustainable Cotton Programme, che – stando a quanto si legge – forma i coltivatori nell’utilizzo di una minore quantità di acqua, fertilizzanti chimici e pesticidi.

Il rimanente 5% sarebbe costituito da passamanerie, abbellimenti o bottoni che sarebbero stati studiati per essere “removibili o anch’essi riciclabili“.

Durabilità: questa nuova collezione è stata testata per avere un più lungo ciclo di vita in linea con il nuovo standard di lavaggio di Primark che assicura una maggiore durabilità. E, quanto alla riciclabilità, si legge:

Ogni capo di abbigliamento è progettato per essere riciclato a fine ciclo di vita. Ciò significa che, laddove possibile, finiture e bottoni sono rimovibili in modo da riutilizzare o riciclare gli abiti più facilmente in nuove fibre o nuovi prodotti. I clienti possono, infatti, depositare i loro capi usati presso appositi punti di donazione all’interno di alcuni negozi Primark selezionati.

Bene, ma non benissimo. Perché il marchio irlandese rimane sempre il re (insieme a Shein e Zara) dell’ultra fashion.

Greenwashing ne abbiamo? Certo che sì

Fondata in Irlanda nel 1969 con il marchio Penneys, Primark oggi conta quasti 400 negozi in 14 Paesi in Europa e Nord America e, secondo i dati ufficiali, impiega più di 70mila persone.

Anche se afferma di concentrarsi a “dare all’abbigliamento una vita più lunga, proteggere la vita sul pianeta e migliorare la vita delle persone” che producono i suoi prodotti e su una serie di impegni su cui sta lavorando per raggiungere entro il 2030 (Primark risulta anche essere membro della Sustainable Apparel Coalition e dal 2002 utilizza sacchetti di carta invece dei sacchetti di plastica, introducendo iniziative per ridurre sprechi e imballaggi), sono ancora tante le ombre che si abbattono su questo ennesimo marchio di ultra fashion.

Se da un lato il marchio irlandese avrebbe sottoscritto l’Accordo del Bangladesh sulla sicurezza antincendio e degli edifici e del Cotton Pledge, per cui boicotterebbe il cotone dell’Uzbekistan, non dimentichiamoci che fu proprio Primark ad essere coinvolta nella vicenda del cotone egiziano contraffatto e che era proprio Primark uno dei marchi che aveva il proprio stabilimento nell’edificio Rana Plaza di Savar, vicino a Dacca, in Bangladesh, che nel 2013 crollò rovinosamente. Malgrado fossero state notate crepe strutturali e i negozi al pian terreno fossero stati dichiarati inagibili e sgomberati, gli operai non furono mai mandati a casa, ma costretti a continuare a lavorare. L’intero Rana Plaza, il 24 aprile di 10 anni fa, si accartocciò su se stesso, uccidendo quasi 1.200 persone e ferendone altre 2.500.

Un anno dopo il brand irlandese dichiarò di dare “assistenza finanziaria” alle famiglie dei lavoratori uccisi, e di procedere alla “messa in sicurezza degli edifici” e ad “aiuti di emergenza”, ma – ad oggi – non abbiamo notizie certe in merito.

Inoltre, Primark è tra i membri dell’Ethical Trading Initiative e ha adottato un proprio Codice di Condotta, che comunque è ancora lontano dal pagamento di un salario di sussistenza.

Come tutti gli altri marchi dell’ultra fashion, infine, anche Primark non ha proprie fabbriche ed esternalizza la produzione ai propri fornitori, senza, quindi, controlli sulla catena di approvvigionamento.

Eccoli spiegati i motivi per cui non riusciamo ad esultare, no di certo, all’ennesima pulizia di facciata.

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Fonti: Primark / Business & Human Rights Resource Centre

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