Forse non lo sai ma questa comune espressione, molto offensiva, ha a che fare con le culle della vita

L'affido del piccolo Enea alle cure della Clinica Mangiagalli a Milano riaccende i riflettori sui giudizi affrettati della società di fronte al dolore di una mamma sola

Come vi abbiamo raccontato, nel giorno di Pasqua una donna ha affidato il proprio bambino alle cure della Clinica Mangiagalli di Milano attraverso il dispositivo “Culla per la Vita”, una possibilità parallela a quella del parto anonimo in ospedale che permette a una mamma di lasciar andare il proprio piccolo avendo la certezza che sarà curato e affidato a una famiglia.

Il bimbo affidato alle cure dell’ospedale si chiama Enea, ha una settimana di vita e gode di ottima salute. Nel lasciarlo, l’anonima mamma ha consegnato al personale sanitario anche una lettera in cui spiega di aver partorito in ospedale per assicurarsi che fosse tutto a posto, e di non potersi occupare del piccolo pur amandolo tanto.

Non sono noti i motivi per cui questa mamma ha compiuto il difficile passo di affidare il suo bambino appena nato a mani sconosciute (seppur fidate) ma possiamo immaginare, anche dalle parole della lettera, il dolore e lo strazio di questa mamma che si è trovata nella situazione di dire addio a suo figlio.

La legge prevede che debbano trascorrere dieci giorni prima che venga resa possibile l’adozione del piccolo Enea – dieci giorni nei quali il piccolo resterà in ospedale e la madre avrà la possibilità di tornare sui suoi passi.

Ma, al di la di ciò che dice la legge, è come al solito l’onda mediatica che accompagna questa triste vicenda a creare indignazione. Sui social e in TV è un susseguirsi di appelli alla mamma, affinché si faccia viva e si riprenda il bambino.

Molti si dicono disposti ad aiutarla, qualora il problema fosse di natura economica, altri si propongono per offrire supporto psicologico alla donna e al piccolo. Nessuno sembra però interessato a farsi i fatti propri, e a rispettare in silenzio una scelta che, per quanto possa non essere condivisa, va rispettata.

La possibilità data alle madri di affidare il proprio bambino a cure altrui, mantenendo l’anonimato, è da anni garantita, ma ancora guardata con disprezzo e sdegno.

Leggi anche: Basta appelli per far cambiare idea alla mamma di Enea (anzi, chiediamoci perché è solo la terza a usare la Culla della vita)

Non è un caso che l’espressione volgare e offensiva figlio di mignotta, che ha accompagnato tanti bambini “figli della ruota” (le ruote poste all’ingresso dei conventi, attraverso cui le mamme potevano affidare i loro bambini alle suore), derivi proprio da questo.

I bambini non riconosciuti dalle loro madri venivano registrati all’anagrafe come Matris Ignotae, abbreviato in M. Ignotae.

Con il passare del tempo e dell’uso, l’espressione puntata è stata fusa in un’unica parola, che è diventata l’offesa che conosciamo oggi. Un offesa per il bambino, ma soprattutto per quella “madre ignota” che, dopo aver subito il lutto del distacco, deve subire per tutta la vita l’onta del suo gesto.

Tornando alla vicenda di questi giorni, c’è poi un’altra questione che riguarda la genitorialità e di cui nessuno sembra occuparsi: se c’è una madre di Enea, a cui tutti stanno esprimendo solidarietà e comprensione, ci deve essere anche un padre. Chi è? Perché non ha fatto nulla per aiutare la donna che ha messo al mondo suo figlio?

Ma, soprattutto, perché il popolo dei giudicatori non punta il dito anche contro di lui? Un bambino viene partorito dalla mamma, e ciò fa dimenticare il fatto che c’è anche un padre, da qualche parte. Un padre che non ha fatto nulla quando ha potuto, o che forse non sa nemmeno di essere legato a Enea.

Un padre che, in ogni caso, non viene menzionato in alcun modo dalla retorica perbenista e falsa della società nella quale viviamo, in cui tutti sono bravi a mostrarsi gentili e comprensivi solo quando è troppo tardi.

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