CODA: cosa ci insegna sull’inclusione il film che ha vinto l’Oscar

Della regista Sian Heder (ebbene sì: dopo l'Oscar 2021 al miglior film con Nomadland di Chloé Zhao, anche quest'anno vince una donna) e interpretato nel linguaggio dei segni, ha vinto l'Oscar per il miglior film 2022. Tenero, delicato, divertente, CODA aveva già trionfato ai SAG Awards 2022, i premi del sindacato degli attori americani

CODA sta per Child of Deaf Adult e indica il bimbo che, udente, viene messo al mondo da uno o entrambi i genitori sordi. È proprio il caso di Ruby, impersonata da una bravissima Emilia Jones, che in CODA – I segni del cuore, scavalca qualsiasi tipo di stereotipo.

A CODA è andato l’Oscar come miglior film e anche le altre due Statuette per cui era candidato: il migliore attore non protagonista, andato a Troy Kotsu, il primo attore sordo ad aver vinto, e alla regista Sian Heder, per la migliore sceneggiatura non originale.

Ma cosa ha da insegnarci questo bellissimo film, che arriverà nelle nostre sale il prossimo 31 marzo?

Remake del francese campione di incassi La famiglia Bélier del 2015 di Éric Lartigau, CODA è ambientato in una comunità di pescatori nel Massachusetts. Protagonista è Ruby Rossi, ventenne e unica udente in una famiglia di sordi. Entrambi i genitori e il fratello sono pescatori e la ragazza, prima di andare a scuola, aiuta la famiglia sulla barca, sulla quale è necessario che ci sia almeno una persona in grado di sentire. Ruby però ha un sogno, quello di cantare, un sogno che però nasconde alla sua famiglia e che la mette anche in conflitto con sé stessa.

Quando è in mare aperto a pescare con il padre e il fratello la sua voce può liberarsi e rincorrere le note di Etta James. Quando, quasi per caso, si unisce a un coro capisce che la sua passione è qualcosa di forte. L’incontro con un professore di canto appassionato ed esigente (Eugenio Derbez, divo del cinema messicano) le farà capire che quel suo sogno di cantare non è solo un capriccio o un desiderio di tagliare il cordone ombelicale con la sua famiglia.

Che cosa farà?

Il padre è il già più volte premiato Troy Kotsur che è diventato il primo attore sordo nella storia di Hollywood a vincere un Oscar, secondo alla attrice Marlee Matlin, premio Oscar a soli 21 anni nell’87 per Figli di un dio minore. Fondatore del Deaf West Theatre, produttore di D-movie, i film per sordi e regista del film No ordinary hero: The SuperDeafy Movie, Kotsur ha emozionato il pubblico del Dolby Theater con un discorso in lingua dei segni veramente toccante.

E la dedica del premio alla comunità sorda, la comunità c.o.d.a. e a tutte le persone diversamente abili.

CODA ci fa entrare in qualcosa che – sembra – non riguardi nessuno tranne i non udenti, o proprio un CODA.

Eppure non così. Guardando il film sembra quasi di spiare quel mondo e riuscire a farne parte. E sembra quasi che CODA riesca a decifrare un codice e che ce lo voglia consegnare, come a dire che “che tu sia sordo o udente, che tu abbia figli o che ti piaccia la canzone You’re All I Need to Get By (che viene eseguita da Ruby durante la sua audizione per il Berklee College of Music), puoi entrare in una storia più comune di quanto ti appaia”. In una vera storia d’amore.

E, probabilmente, per le persone sorde tutto questo è liberatorio, come se avessero qualcosa dentro che i più fanno finta di non vedere. O meglio: di non sentire.

CODA è poi un film pieno di umorismo, un film che non asseconda mai l’essere sdolcinato e che intreccia momenti dolorosi con il divertimento. Perché la vita è anche questo: nei momenti di più profondo dolore cerca sempre la leggerezza!

E non solo: in CODA assistiamo a una famiglia di sordi che si affida a una ragazza (“normodotata”) per lavorare, perché nessun altro nella loro comunità conosce la lingua dei segni. Eccolo un altro punto: quante risorse vengono realmente impiegate per i sordi?

In definitiva, CODA ci spinge a chiederci: dove posso fare di meglio? Come possiamo rendere questo mondo uno spazio migliore, più accogliente e inclusivo? Per tutti gli esseri umani. Da tutte le parti.

C’è così tanta profondità in questo film della Heder, che – sì – ci insegna ad ascoltare, come un’arte che ha poco a che fare con quanto le nostre orecchie sentono.

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