Cosa significa essere un bambino plusdotato? L’emozionante racconto che ti farà vedere il mondo con gli occhi di un gifted

Molto spesso vengono etichettati con diagnosi errate, non sono capiti e non sono valorizzati. Ora un racconto inedito, vincitore di menzione d’onore con medaglia al premio nazionale di poesia e narrativa “Alda Merini”, ci mostra l’alto potenziale cognitivo in una veste nuova e da un punto di vista che colpisce dritto al cuore, quello di un bambino gifted impegnato in un gioco a premi durante la ricreazione a scuola. L'autrice è la dottoressa Ermelinda Maulucci

Bambini plusdotati, ne avete mai sentito parlare? Hanno un quoziente intellettivo fuori dalla norma. Ma se vi aspettate di riconoscerli in quanto piccoli geni con voti altissimi a scuola, vi sbagliate. Non sempre brillano in quanto a rendimento scolastico, anzi spesso non è affatto così.

Questi bambini possono incontrare molte difficoltà, non essere riconosciuti nelle loro particolarità e di conseguenza incontrare problemi nel far emergere al meglio le proprie incredibili doti. Possono avere problemi di socializzazione anche con i compagni coetanei.

Chi sono i bambini plusdotati? Come si riconoscono?

“Il più delle volte non vengono compresi e sostenuti nella loro individualità fuori dal comune. Oltre a presentare un alto quoziente intellettivo, mostrando un insieme di abilità cognitive e attitudini decisamente superiore alla norma, presentano alti livelli di percezione e di sensibilità nei confronti del mondo che lo circonda, pertanto questa combinazione di capacità cognitive e intensità emotiva, danno luogo a esperienze e consapevolezza differente dalla norma”, spiega a greenMe Emilia Amodio, presidente dell’Associazione Arborescenza.

Parla di loro anche la dottoressa Ermelinda Maulucci, avvocato laureata anche in Psicologa clinica, che si occupa di plusdotazione da circa un decennio ad è autrice di “Alto potenziale cognitivo e doppie eccezionalità”.

“I Gifted con sotto-rendimento presentano diffidenza verso gli altri, tendenza a criticare gli insegnanti, abitudini di studio scorrette, desiderio di abbandonare la classe e di ignorare i compiti, tendenza al rendimento solamente con gli insegnanti che gradiscono di più, perfezionismo incoerente che viene applicato solo per i lavori che percepiscono come per sé importanti. Essi possono quindi amare l’apprendimento, criticare il sistema scolastico e ingaggiare sé stessi nel processo di apprendimento solamente nella misura che ritengono di poter affrontare”, si legge nel suo libro .

Come pensa un bambino plusdotato?

Pensiero arborescente, si chiama così la tendenza a ragionare ramificando le idee prediligendo un ampio pensiero astratto piuttosto che procedere in modo sequenziale e lineare. E cosa prova un bambino che ha questo modo di pensare? Proprio per cercare di entrare nel loro mondo la Maulucci ha appena scritto un racconto inedito, dal titolo “Nascondino con gli amici”, che ci svela una piccola parte del mondo scolastico, la ricreazione e un gioco a premi con i compagni, vista con gli occhi di un bambino plusdotato.

Insignito della menzione d’onore con medaglia al premio nazionale di poesia e narrativa “Alda Merini”, questo breve testo ci racconta l’alto potenziale cognitivo in una veste nuova, che conosce bene chi ha un figlio gifted che per essere accettato nel gruppo di pari sceglie di scendere a compromessi e di “nascondere” la sua vera natura.

“Il motivo per cui l’ho scritto è proprio quello di poterlo utilizzare come mezzo di divulgazione. Ho pensato che magari più che un articolo con citazioni scientifiche, più di qualcuno avrebbe letto con maggiore piacere un racconto narrativo, scoprendo che esiste la plusdotazione”.

Da finire tutto di un fiato, potete leggerlo integralmente su greenMe qui di seguito.

(Come si fa a capire se un bambino e plusdotato? Scopri i segnali per riconoscere i bambini gifted)

“Nascondino con gli amici”, il punto di vista di un bambino plusdotato

Ogni volta che i suoi compagni decidono di gareggiare, Ettore li guarda chiedendosi chi vincerà questa volta. Nei suoi occhi si percepiscono guizzi di titubante attesa. La gara sta per cominciare, tutti sono pronti a rispondere alle domande di Martina, una bambina di quinta elementare che da grande vorrebbe diventare un’insegnante.

Questa volta l’argomento della competizione è la geografia. Bisogna indovinare le capitali degli Stati del mondo. A Ettore manca il respiro, non può davvero credere alle sue orecchie: la geografia è il suo argomento preferito. Da qualche mese sta leggendo molti libri proprio sulle capitali, sulle bandiere, sulla popolazione, sulla religione, sull’economia dei vari Paesi del mondo. Ogni sabato va in libreria per cercare altri testi su questi argomenti. E oggi la competizione riguarda proprio le capitali!

Ettore inizia a ripassare mentalmente le regole del gioco, prestando molta attenzione a non infrangerle: “Devo ricordarmi di rispettare il mio turno, di dare una risposta per volta, di non alzare la voce, di accettare il pensiero degli altri, di non voler vincere a tutti i costi… no no aspetta queste sono le regole del loro gioco non del mio”.

La posta in palio è troppo alta perché possa permettersi di sbagliare. Ettore si affretta a ripassare la sua strategia, il metodo che gli ha sempre permesso di raggiungere il risultato atteso. Ecco che inizia il gioco. I bambini sono pronti a rispondere alle domande. Alcuni, sentito l’argomento, decidono di ritirarsi dalla competizione. Sono rimasti solamente in quattro. Il premio per chi indovina consiste nel poter portare a casa per un giorno l’ambitissimo pallone della scuola. Ettore è teso, ha paura di sbagliare. Cosa ne sarebbe stato di lui se avesse fallito la sua missione? Martina dà avvio al gioco chiamando Lucia e le chiede quale sia la capitale della Spagna. Dopo alcuni secondi di tentennamento, Lucia risponde con aria decisa: “Barcellona!”. Ettore fatica un po’ a nascondere lo stupore e pensa: “Com’è possibile che in terza elementare non sappia che la capitale della Spagna è Madrid?”.

Martina, scuotendo la testa, si affretta a segnalare alla bambina di aver sbagliato. Si rivolge allora a Giacomo chiedendogli il nome della capitale della Francia. Giacomo scatta in piedi e urla “La so, la so, la so, ci sono andato a Natale! E’ Parigi!”. Ettore non può non chiedersi se l’amico avesse saputo la risposta anche se non fosse appena andato a visitarla. Giacomo, lo sanno tutti, prepara in anticipo le lezioni di scuola con sua madre maestra; vuole sempre essere il più bravo della classe. Martina riconosce che la risposta del bambino è corretta. Ma prima di consegnargli il pallone deve ancora sondare le conoscenze di Ettore e Pietro. La bambina si rivolge allora a Ettore e gli chiede: “Sai dirmi qual è la capitale della Finlandia?”. Gli altri bambini si ammutoliscono, questa domanda è davvero difficile. Ettore ha un sussulto, un lampo gli attraversa gli occhi e vorrebbe urlare “Helsinki, che domande!”.

Sa benissimo però che questo non fa parte del “suo” gioco, delle regole che si è imposto da quando in prima elementare passava tutta la ricreazione da solo, aspettando che qualcuno si accorgesse di lui. Aveva sperimentato troppo a lungo la solitudine e non poteva rischiare che qualcosa andasse storto e lo facesse tornare nel silenzio, senza più giochi, calci al pallone, condivisione di discorsi sulla squadra del cuore, senza più giocare a nascondino. Aveva imparato a farsi piacere i giochi che interessavano ai bambini della sua età, a parlare di argomenti adatti ai compagni e, non da ultimo, a cercare di nascondere i propri interessi. Voleva sembrare come tutti gli altri. Non poteva certo permettersi di rinunciare alla socialità.

Ricorda ancora il giorno in cui aveva capito come poter legare con gli altri bambini. Solo allora aveva scoperto che in realtà quello che più desiderava a scuola era avere tanti amici ed essere trattato come gli altri. Si era perfino scelto una squadra preferita e aveva ovviamente imparato tante nozioni noiose sul calcio: era sicuramente una carta che poteva giocare con gli altri bambini. Nessuno si sarebbe stupito se avesse parlato di calcio. Certo, doveva ricordarsi di evitare di commentare il mercato dei calciatori, gli stipendi che percepisco, le squadre in cui hanno giocato fin dagli esordi e di azzardare pronostici per il futuro. Queste nozioni forse non erano apprezzate nelle conversazioni con i suoi nuovi amici. Avrebbe dovuto cercare di non scendere troppo nei particolari. In un attimo Ettore ripercorre con la mente questi momenti. Ripensa anche a quando la psicologa gli aveva parlato della sua plusdotazione, della sua capacità di apprendere più velocemente e in maniera diversa rispetto agli altri, ma anche del suo bisogno di approfondire le conoscenze, dei suoi pensieri complessi e profondi, della sua intensità, della sua spiccata emotività e dei suoi alti livelli di sensibilità.

Finalmente quel giorno aveva capito perché era diverso dagli altri, aveva compreso di non essere sbagliato ma semplicemente di funzionare in maniera differente rispetto ai suoi compagni. Custodiva ancora con cura il maglione che indossava durante quel colloquio anche se ormai non era più della sua taglia. Era stato uno dei giorni più importanti della sua vita e lui sapeva che non lo avrebbe mai dimenticato Ettore, perso nei suoi pensieri, non si accorge di trattenere il respiro e di avere lo sguardo assente finché Martina non lo richiama: “Allora Ettore questa risposta arriva o no?”. Ettore con un sussulto torna alla realtà. Sa bene cosa deve fare ora, quello che ha imparato a fare così abilmente negli ultimi tempi: nascondersi. “Certo, Martina, sono assolutamente sicuro che la capitale della Finlandia sia Lisbona”. “Ma no, Ettore, hai sbagliato anche questa volta, mi dispiace, neanche oggi potrai portare a casa il pallone”.

Beh certo, sarebbe stato bello poter vincere per un giorno il pallone, ma Ettore sa che non è certo questo che può renderlo felice. A casa ha già un pallone, lo usa per allenarsi così poi a scuola gli amici gli chiederanno di entrare nella loro squadra. Quello che conta veramente, Ettore lo ha compreso bene, è avere degli amici che vogliano stare con lui. Così si finge dispiaciuto e si limita a rispondere che sarà per la prossima volta, già sapendo che anche allora dovrà tenere fede alla promessa che si era fatto e portare avanti le regole che si è imposto.
Arriva infine il turno di Pietro, il migliore amico di Ettore. Pietro è dislessico e fatica ancora a leggere l’ora. Ettore non può non chiedersi che difficoltà possa avere il suo amico a cercare Paesi e città nel mappamondo. Quando Martina chiede quale sia la capitale del Belgio è risoluto ad aiutare il suo compagno. Deve fare attenzione però, deve cercare di aiutarlo senza farsi scoprire dagli altri. Gli suggerisce così degli indizi a bassa voce, ma Pietro non riesce a sentirli e sbaglia la risposta. Avrebbe voluto davvero che il suo compagno, che a differenza sua deve fare grandi sforzi per riuscire a leggere velocemente, potesse vincere la gara.

Mentre è assorto in questi pensieri la maestra richiama i bambini; l’ora della ricreazione è terminata, si deve tornare in classe. Pietro prende la mano di Ettore e insieme corrono ridendo dall’insegnante. All’uscita da scuola, mentre è in auto con sua mamma, Ettore le racconta: “Sai mamma, oggi il pallone lo ha vinto Giacomo. Il quiz era sulle capitali…”. La mamma entusiasta esclama: “Ettore, è il tuo argomento preferito!”. Subito, però, si accorge dell’espressione imbarazzata del figlio e, in un lampo, con la capacità di comprensione che una mamma sa avere, capisce quello che era successo. Un nodo alla gola la paralizza. Sa però che queste sono le regole che Ettore si è dato e ricorda quanto gli è costato essere il bambino trasparente, quello che nessuno vedeva, nessuno voleva come amico perché interessato a giochi o argomenti di discussione insoliti per i bambini della sua età. In fondo la donna è consapevole che piccoli errori voluti sono ben compensati dalla possibilità di socializzare con i compagni.

Così la mamma cambia argomento e si affretta a chiedergli se si sia divertito a scuola con gli amici ed Ettore risponde felice che è stata una bellissima giornata e che non vede l’ora di rivedere i suoi compagni l’indomani. Ogni nota di imbarazzo è svanita dal viso del piccolo. Sua madre come sempre lo ha capito. Ci sono cose che con lei non occorre spiegare. Ma ci sono anche cose che con lei si possono fare… “Mamma, mamma, appena arriviamo a casa giochiamo insieme al quiz delle capitali? Però non ti arrabbiare se perdi, non è certo colpa mia se non sai nemmeno qual è la capitale delle Isole Vanuatu!”.

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