Eugenio Montale, 125 anni fa nasceva il poeta che ci ha insegnato il senso (a volte doloroso) della vita

Alla poesia di Eugenio Montale e al suo genio oggi Google dedica un Doodle, in occasione dei 125 anni dalla sua nascita.

Nacque oggi, il 12 ottobre di 125 anni fa, Eugenio Montale. A scuola ce lo fanno conoscere come uno dei massimi rappresentanti dell’Ermetismo, in una visione in realtà troppo sbrigativa. La sua fu più poesia della rassegnazione e della negatività, in cui la vita appare quasi priva di senso profondo. 

Ossi di seppia e Le occasioni, La bufera e altro e Satura, Diario del ’17 e del ’72 e Quaderno di quattro anni e molto altro: quanto di bello ci ha lasciato Eugenio Montale? Tutto racchiuso lì, in quella sua visione della poetica come espressione del dolore di vivere, amara ricerca di verità e di senso, ma anche disillusione verso la realtà e difesa della civiltà dalle barbarie del suo tempo.

È il tempo, infatti, delle due guerre mondiali, il suo, e delle nuove scoperte nei campi della fisica e della tecnologia. Il tempo in cui fervono idee e malumori. Proprio in questo contesto, Eugenio Montale è stato un poeta che ha saputo descrivere in pieno le inquietudini del momento.    

Al suo genio oggi Google dedica un Doodle, in occasione dei 125 anni dalla sua nascita. Morì invece il 12 settembre 1981, mentre nel 1975 gli venne assegnato il Premio Nobel per la Letteratura.

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Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persine disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non poteva amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all’attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.

Così, scriveva Montale nel suo discorso di ringraziamento dopo aver ricevuto il Nobel.

La poesia di Montale

La sua poesia portava, nella prima metà del Novecento, un linguaggio decisamente nuovo. Il parallelismo e la coincidenza tra il paesaggio ligure e i modi della poesia detti dell’aldilà, furono quegli aspetti che si fissarono poi nella negatività e proprio nella “corrosione critica dell’esistenza“, in una visione costante assolutamente distaccata e oggettiva.

Di fatto, l’attenzione di Montale si concentra proprio sulle cose, perché oggetti, situazioni ed eventi sono correlativi oggettivi del suo stato d’animo e intesi come emblemi del destino dell’uomo e della sua condizione esistenziale. Ogni immagine descritta svela una verità nel caos indecifrabile del reale. Ogni singolo termine dei suoi scritti è ben ponderato e pieno di un significato simbolico tanto che la concentrazione semantica del linguaggio, lo stile alto e le scelte lessicali stranianti (ottenute con l’uso di termini arcaici, desueti o decontestualizzati) dalle mille influenze letterarie del tempo (forte è l’influenza della moderna poesia europea dei simbolisti francesi, di Eliot o di Pound) contribuiscono a comunicare una visione astratta e fortemente disincantata del mondo,

Va da sé, che la visione della realtà si caratterizza per un radicale pessimismo che nasce dal tramonto di ogni sicurezza metafisica: il mondo è senza senso e il dolore è insito nella condizione umana. I muri, le crepe, gli spacchi: tutto fa riferimento alla sofferenza dell’uomo.

La parola chiave è negatività, che meglio definisce quel tormento di Montale nel cercare e scegliere un linguaggio quotidiano di parole umili, neologismi, forme dialettali, quasi a esprimere la stessa fatica del poetare e del comunicare.

Un po’ di… Ossi di seppia

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

 

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi piu t’ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.

 

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

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