Baudelaire: le poesie più belle a 201 anni dalla nascita, attuali più che mai

Il 9 aprile del 1821 nasceva a Parigi Charles Baudelaire e noi lo vogliamo ricordare con alcune delle sue poesie più famose.

Charles Baudelaire, un incrocio tra estrosità e irrequietezza. Chi ha camminato per le vie di Parigi ha respirato in più parti l’anima inquieta e bohèmien dell’autore de Les Fleurs du mal, nel Quartiere Latino, dov’è nato, e poi nel Jardin du Luxembourg, lungo la Senna, a Montmartre e nei bar e nei ristoranti che della capitale francese raccontano la storia. Oggi, 9 aprile, si celebrano i 201 anni dalla sua nascita e noi lo vogliamo ricordare con alcune delle sue poesie più famose.

Autore decadente, genio sregolato, lontano da quel tipo di poeta “ispirato” e romantico, Baudelaire rimarcò piuttosto il ruolo dell’intelligenza e della ragione nella creazione artistica, sostenendo la sua antropologica sulla convinzione che tutti gli uomini vivono in uno stato d’angoscia, perché non riescono a realizzarsi.

Un vero e proprio stato di malessere fisico e psicologico, di scontento misto a inquietudine, che prende il nome di Spleen, che va di pari passo con l’Ennui, la noia, contrapposta a sua volta alla “passione” dei romantici.

Secondo Baudelaire, a quella angoscia, a quello Spleen ci si può arrendere oppure cercare di opporsi, allontanandosi dalla realtà e cercando l’Idéal. Per raggiungerlo, l’uomo deve evadere e fuggire dal quotidiano. È qui che entra in gioco il dandismo, la corrente di pensiero secondo cui l’uomo è rivolto alla ricerca dell’estetismo a qualsiasi livello, allontanandosi dal brutto e banale della realtà e andando a rifugiarsi nell’artificiale, in tutto ciò che non è naturale.

Scriverà:

Il vino esalta la volontà, l’hashish l’annienta.
Il vino è un supporto fisico,
l’hashish è un’arma per il suicidio.

Spleen, Idéal, Dandismo, Ennui sono i concetti che si ritrovano alla base della raccolta di poesie I fiori del male.

Le poesie più belle di Baudelaire

Spleen

Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve
Sull’anima gemente in preda a lunghi affanni,
E in un unico cerchio stringendo l’orizzonte
Riversa un giorno nero più triste delle notti;

Quando la terra cambia in un’umida cella,
Entro cui la Speranza va, come un pipistrello,
Sbattendo la sua timida ala contro i muri
E picchiando la testa sul fradicio soffitto;

Quando la pioggia stende le sue immense strisce
Imitando le sbarre di una vasta prigione,
E, muto e ripugnante, un popolo di ragni
Tende le proprie reti dentro i nostri cervelli;

Delle campane a un tratto esplodono con furia
Lanciando verso il cielo un urlo spaventoso,
Che fa pensare a spiriti erranti e senza patria
Che si mettano a gemere in maniera ostinata.

E lunghi funerali, senza tamburi o musica,
Sfilano lentamente nel cuore; la Speranza,
Vinta, piange, e l’Angoscia, dispotica ed atroce,
Infilza sul mio cranio la sua bandiera nera…

Spleen 2

Ho più ricordi che se avessi mille anni.
Un grosso mobile a cassetti, zeppo di conti,
versi, biglietti d’amore, processi, romanze
e pesanti ciocche di capelli avvolte in quietanze,
nasconde meno segreti del mio triste cervello.

[…]

– Mia materia viva, ormai tu sei soltanto
un granito circondato di vago spavento,
assopito nel fondo delle nebbie del Sahara!
Sei una vecchia sfinge ignorata dal mondo incurante,
dimenticata sulle mappe e con un estro selvaggio
che canta solo ai raggi del sole che muore

L’albatro

Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi
uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il
bastimento scivolante sopra gli abissi amari.

Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell’azzurro, goffi

e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi,
candide ali, quasi fossero remi.

Come è intrigato e incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco
addietro così bello, com’è brutto e ridicolo! Qualcuno irrita il
suo becco con una pipa mentre un altro, zoppicando, mima
l’infermo che prima volava!

E il poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere, assomiglia
in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra, fra gli
scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare di un passo.

Inno alla bellezza

Vieni dal ciel profondo o l’abisso t’esprime,
Bellezza? Dal tuo sguardo infernale e divino
piovono senza scelta il beneficio e il crimine,
e in questo ti si può apparentare al vino.

Hai dentro gli occhi l’alba e l’occaso, ed esali
profumi come a sera un nembo repentino;
sono un filtro i tuoi baci, e la tua bocca è un calice
che disanima il prode e rincuora il bambino.

Sorgi dal nero baratro o discendi dagli astri?
Segue il Destino, docile come un cane, i tuoi panni;
tu semini a casaccio le fortune e i disastri;
e governi su tutto, e di nulla t’affanni.

Bellezza, tu cammini sui morti che deridi;
leggiadro fra i tuoi vezzi spicca l’Orrore, mentre,
pendulo fra i più cari ciondoli, l’Omicidio
ti ballonzola allegro sull’orgoglioso ventre.

Torcia, vola al tuo lume la falena accecata,
crepita, arde e loda il fuoco onde soccombe!
Quando si china e spasima l’amante sull’amata,
pare un morente che carezzi la sua tomba.

Venga tu dall’inferno o dal cielo, che importa,
Bellezza, mostro immane, mostro candido e fosco,
se il tuo piede, il tuo sguardo, il tuo riso la porta
m’aprono a un Infinito che amo e non conosco?

Arcangelo o Sirena, da Satana o da Dio,
che importa, se tu, o fata dagli occhi di velluto,
luce, profumo, musica, unico bene mio,
rendi più dolce il mondo, meno triste il minuto?

Ti adoro

T’adoro al pari della volta notturna,
o vaso di tristezza, o grande taciturna!

E tanto più t’amo quanto più mi fuggi, o bella,
e sembri, ornamento delle mie notti,
ironicamente accumulare la distanza
che separa le mie braccia dalle azzurrità infinite.

Mi porto all’attacco, m’arrampico all’assalto
come fa una fila di vermi presso un cadavere e amo,
fiera implacabile e cruda, sino la freddezza
che ti fa più bella ai miei occhi.

L’uomo e il mare

Sempre il mare, uomo libero, amerai!
perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
nell’infinito svolgersi dell’onda
l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito
non meno amaro. Godi nel tuffarti
in seno alla tua immagine; l’abbracci
con gli occhi e con le braccia, e a volte il cuore
si distrae dal tuo suono al suon di questo
selvaggio ed indomabile lamento.
Discreti e tenebrosi ambedue siete:
uomo, nessuno ha mai sondato il fondo
dei tuoi abissi; nessuno ha conosciuto,
mare, le tue più intime ricchezze,
tanto gelosi siete d’ogni vostro
segreto. Ma da secoli infiniti
senza rimorso né pietà lottate
fra voi, talmente grande è il vostro amore
per la strage e la morte, o lottatori
eterni, o implacabili fratelli!

L’Heautontimorumenos

Ti colpirò, senza odio e senza collera,
come un beccaio, come Mosè il sasso;
e perché possa al fine dissetare
il mio Sahara, le acque del dolore
zampillare farò dalla tua palpebra.

Rigonfio di speranza il desiderio
andrà sulle tue lacrime salate
come un vascello che si spinge al largo;
nel cuore inebriato dei tuoi singhiozzi,
che mi son cari, echeggeranno quasi
un tamburo che batte la sua carica.

Non sono forse un falso accordo nella
divina sinfonia, grazie all’edace
Ironia che mi scuote e mi morde?
Tutto il mio sangue, tutto, è questo nero
veleno; ed io non sono che lo specchio
in cui si guarda la strega.

Coltello e piaga, schiaffo e guancia, membra
e ruota sono, vittima e carnefice;
sono il vampiro del mio cuore, un grande
infelice, di quelli a un riso eterno
dannati, e che non possono più sorridere.

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