Cent’anni fa nasceva Primo Levi, simbolo dell’importanza della memoria

Cent'anni fa, il 31 luglio del 1919, è nato Primo Levi, chimico e scrittore torinese passato alla storia per aver raccontato la tragedia della deportazione.

Raccontò la crudezza dei “campi di distruzione”, come lui stesso li definì, l’orrore dei lager, l’umiliazione, l’offesa, la degradazione dell’uomo: Primo Levi è tra quegli autori che la nostra cultura dovrebbe tenersi belli stretti, testimone sconvolgente dell’abiezione della razza umana nell’uso dello sterminio di massa. Nel 2019 cade il centenario della sua nascita ed ecco perché dobbiamo ricordarlo.

Ebreo e partigiano, era già abbastanza perché Primo Levi venisse deportato dai nazisti ad Aushwitz. La sua fortuna, raccontava lui stesso, era che però il governo tedesco nel ’44, vista la scarsità di manodopera, decidesse di prolungare la vita media dei prigionieri da eliminare e sfruttarli a suo beneficio.

Ho studiato per diventare chimico, e ho lavorato come chimico per trent’anni, prima, durante e dopo la guerra; ma, inaspettatamente, sono diventato scrittore perché durante la guerra sono stato mandato in un campo di sterminio tedesco. Sarebbe cinico dire che è stata una fortuna. È il genere di fortuna che non andrebbe augurata nemmeno al proprio peggior nemico. Ma, col senno di poi, mi ha fornito un’esperienza inusuale, un osservatorio fuori del comune sul comportamento umano e una riserva immensa di materia prima”, dirà Levi a suggello di quell’intima necessità di raccontare il dolore di quella immensa tragedia.

Se questo è un uomo, che Primo Levi cominciò a scrivere durante la prigionia, è un vero e proprio documento sulla non vita dei deportati, la loro paura, gli stenti e i soprusi, e considerato uno dei grandi classici del ‘900. Ma anche La Tregua, che gli segue e che gli valse il premio alla prima edizione del Campiello nel 1963, è uno spietato resoconto del suo lungo viaggio di ritorno verso quella che sembrava essere una ventata di libertà.

Cent’anni di Primo Levi

Nacque oggi, il 31 luglio di cento anni fa, Primo Levi, torinese. Tornato in Italia dopo anni all’interno del campo di concentramento nazista, ha testimoniato per l’intera sua vita le violenze nei confronti degli ebrei durante quel periodo, finendo per suicidarsi nell’aprile del 1987.

Figlio di Ester Luzzati e Cesare Levi, ingegnere elettrotecnico, Primo frequentò le scuole a Torino e il corso di laurea in chimica. Si laureò con lode nel 1941 e sul diploma di laurea venne specificato che lo studente era di “razza ebraica” (le leggi razziali introdotte nel 1938 impedivano gli studi universitari a chi era di origini o di “razza ebraica”, ma permettevano di terminarli a coloro che li aveva già iniziati, ma non senza difficoltà). Nel 1942, Primo si trasferì a Milano per lavorare in una fabbrica svizzera di medicinali e qui entrò in contatto con ambienti antifascisti militanti prendendo parte anche al Partito d’Azione clandestino.

Entrato in un nucleo partigiano della Val d’Aosta, il 13 dicembre del 1943, nel villaggio di Amay, venne arrestato dalla milizia fascista e all’interrogatorio non volle dichiarare la sua appartenenza al nucleo partigiano, ma confessò la sua origine ebraica. Per questo fu portato a Fossoli, nel campo di concentramento di Carpi, in provincia di Modena.

Rimase lì fin quando, il 22 febbraio 1944 con altri 650 ebrei fu costretto a salire su un treno merci destinato ad Auschwitz, dove vi rimase per un anno. Nel 1945, infatti, il campo venne liberato dall’Armata Rossa. Fu uno dei soli 20 sopravvissuti tra i 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo.

Se questo è un uomo

Come disse lo stesso Primo Levi, Se questo è un uomo  nacque “fin dai giorni di lager per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi”. Scritto tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947, venne scartato per due volte dalla Einaudi: la prima nel 1947, per mano di Natalia Ginzburg e da Cesare Pavese, che considerò superato l’argomento. Levi si rivolse allora alla casa editrice Francesco De Silva che lo stampò nell’autunno del 1947. L’opera non ebbe un successo immediato e quando nel 1956 Einaudi decise di avviarne la ristampa, diventò un best seller. L’opera verrà successivamente tradotta in inglese e in tedesco, poi in numerose altre lingue.

Ecco Shemà (dall’ebraico “ascolta“), una breve poesia in versi liberi che apre Se questo è un uomo:

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa, andando per via,
coricandovi, alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

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