I bombi “mordicchiano” le piante per farle fiorire più velocemente, sorprendendo gli scienziati

Se i bombi trovano troppo poco polline, pungono le foglie delle piante non fiorite per portarle alla produzione di fiori più rapidamente.

Cambiamenti climatici e riscaldamento globale stanno mettendo in pericolo gli habitat di bombi ed api, che faticano sempre di più a colonizzare nuovi territori e a riprodursi in nuove aree. Ma loro, però, sono esseri assai ingegnosi, tanto da fare in modo di procurarsi in ogni caso il polline. Un nuovo studio rivela infatti che i bombi inducono le piante a fiorire: se trovano troppo poco polline, pungono le foglie delle piante non fiorite per portarle alla produzione di fiori più rapidamente, facendo piccole incisioni nelle loro foglie. Una scoperta che ha sbalordito gli scienziati.

Come funziona effettivamente rimane un mistero ma, se replicato, potrebbe essere un vantaggio per l’agricoltura.

A rivelare lo straordinario metodo è la ricercaBumble bees damage plant leaves and accelerate flower production when pollen is scarce”, pubblicata su Science da un team di ricercatori dell’ETH Zürich e dell’Universite Paris-Saclay. Gli studiosi hanno in pratica scoperto che, quando sono a corto di polline, i bombi rosicchiano le foglie delle piante per indurle a fiorire. Un modo che ingannerebbe le piante e le porta ad anticipare la fioritura, anche fino a 30 giorni prima del normale.

I bombi, massicci e ricoperti di peli, sono grandi impollinatori selvatici ed essenziali per moltissime colture, ma anche loro, negli ultimi anni, hanno subito una drastica riduzione. Quest’anno la primavera è arrivata in anticipo, accompagnata da temperature più simili a quelle di inizio estate.

Questi tipi di anomalie stagionali stanno diventando sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico e l’incertezza che ne deriva minaccia di distruggere la tempistica delle relazioni mutualistiche tra le piante e i loro insetti impollinatori di insetti”, dicono dall’ETH Zürich.

Lo studio

Secondo le indagini, quando sono a corto di polline, i bombi sono in grado di rosicchiare letteralmente le foglie delle piante per indurre una loro fioritura: ciò le inganna le porta a fiorire a volte anche fino a 30 giorni prima del normale.

Un comportamento, questo, notato già in altri esperimenti intrapresi dal principale autore dello studio, Foteini Pashalidou: gli impollinatori mordicchiavano le foglie delle piante utilizzate per i test. Solo in seguito si è cercato di capirne il perché.

Conducendo studi all’aperto, i ricercatori dell’ETH hanno dimostrato che “la propensione dei bombi a danneggiare le foglie ha una forte correlazione con la quantità di polline che possono ottenere: i danni alle api vengono fatti molto più frequentemente quando c’è poco o nessun polline a loro disposizione”.

bombo foglia

©Hannier Pulido/ETH Zürich

E non solo: quella sorta di “danno” inflitto alle foglie delle piante ha avuto effetti notevoli sul tempo di fioritura in due diverse specie: le piante di pomodoro sottoposte ai morsi dei bombi fiorivano fino a 30 giorni prima di quelle che non erano state prese di mira, mentre le piante di senape fiorivano circa 14 giorni prima quando venivano danneggiate dai bombi.

bombo foglia

©Hannier Pulido/ETH Zürich

Lo stadio di sviluppo della pianta quando viene morsa dai bombi può influenzare il grado di accelerazione della fioritura”, spiega Consuelo M. De Moraes dell’ETH, un fattore che i ricercatori intendono studiare in futuro.

Ciò potrebbe creare un modo completamente nuovo per gli esseri umani di coltivare le piante, un vantaggio potenzialmente importante per l’agricoltura, sostengono i ricercatori. E non solo, conoscere meglio la relazione tra bombi e fioritura potrebbe avere implicazioni per la resilienza di queste creature di fronte a un ambiente in continuo mutamento.

Penso che sia affascinante quanto ancora non sappiamo di organismi che pensiamo di conoscere davvero bene. Aumenta assolutamente il nostro senso di meraviglia per l’intelligenza della natura in tutte le sue molteplici forme”, conclude la De Moraes.

Fonti: Science / ETH Zürich

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