La peste suina africana diventa l’ennesimo pretesto per massacrare i cinghiali e aggirare il divieto di caccia

La paura di nuovi focolai di peste suina africana negli allevamenti italiani sta diventando il pretesto per riprendere a cacciare i cinghiali

Torna a riaffacciarsi anche in Italia il problema della Peste suina africana (PSA), una malattia virale che colpisce suini e cinghiali. La Lega per l’Abolizione della Caccia denuncia però come questo problema reale stia diventando il pretesto per poter sparare ai cinghiali, nonostante gli attuali divieti di caccia imposti dalla pandemia.

La Peste suina è tornata a colpire soprattutto la Germania dove, all’inizio del mese, già si registravano 100 casi. Di conseguenza la preoccupazione è cresciuta anche nel nostro paese e gli allevatori si sono allarmati, in particolare per la proliferazione dei cinghiali. Ricordiamo infatti che questi animali possono essere veicolo di trasmissione della malattia che, fortunatamente, non colpisce invece gli esseri umani.

I cinghiali dunque, sostengono gli allevatori, potrebbero favorire lo sviluppo di focolai in diverse zone del nostro paese e, per questo, sarebbe necessario procedere all’azione di contenimento. In parole povere, attraverso la caccia, si vorrebbe ridurre la popolazione dei cinghiali per cercare di evitare la diffusione della peste suina.

Ma davvero riprendere a cacciare questi animali con tale pretesto può essere la soluzione al problema?

A rispondere con un secco no è la Lega per l’Abolizione della Caccia – Brescia che in un comunicato scrive chiaramente che questa scelta è solo un pretesto per riprendere ad uccidere i cinghiali, aggirando i divieti di caccia imposti dalla pandemia.

“La soluzione è sempre la stessa: massacrare i cinghiali per poter così aggirare lo stop alla caccia imposto, giustamente, da un’altra pandemia che ci riguarda da vicino. (…) Posto che gli stessi numeri proposti periodicamente dalla Regione Lombardia dimostrano che nonostante gli abbattimenti aumentino anche i cinghiali, anche qui per una legge scientifica, enti non proprio noti per il loro animalismo militante come l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) dicono che sarebbe una follia affrontare la diffusione della peste suina andando in giro a uccidere cinghiali. Perché semplicemente gli stessi cacciatori diverrebbero un veicolo di infezione trasportando le carcasse (o parti di esse) di animali potenzialmente infetti“.

E poi continuano sottolineando che:

La scienza dice che i maiali degli allevamenti non sono in pericolo se non entrano in contatto con altri maiali o con suidi selvatici ammalati, e se volessero tutelare animali e ambiente, in Regione dovrebbero porsi un altro problema: quello dei milioni di suini stipati in orrende fabbriche di batteri, virus, gas serra e Pm10 che producono quella che viene pomposamente e vergognosamente proposta come ‘carne 100%’ italiana”.

Considerando che la maggior parte dei suini nel nostro paese si trovano all’interno di allevamenti chiusi, è praticamente impossibile che entrino in contatto con i cinghiali selvatici. L’unico rischio potrebbe essere per i maiali allevati allo stato brado o semi-brado ma, seguendo buone pratiche di igiene e utilizzando i recinti, il problema può essere ugualmente tenuto sotto controllo.

Non dimentichiamo infine che, ad oggi, non si registrano in Italia casi di cinghiali infetti se non in Sardegna dove gli animali selvatici hanno più possibilità di venire a contatto con suini allevati all’aperto.

Uccidere i cinghiali, dunque, non è una strategia vincente per spegnere l’epidemia, mentre lo è invece mantenere le dovute norme igieniche e di biosicurezza all’interno degli allevamenti ma soprattutto:

“una corretta gestione dei rifiuti di origine animale e controllare le importazioni e i maiali all’entrata negli allevamenti. Chi strumentalizza questa malattia per chiedere più caccia, imputa colpe a una vittima, il cinghiale, non a chi la diffonde”.

Fonte: Abolizione caccia

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