Carne da allevamento intensivo? Potremmo non saperlo mai (nonostante le nuove etichette)

Carne da allevamento intensivo? Con l'etichetta proposta dal governo italiano, secondo Greenpeace, non lo sapremo mai

Il governo italiano propone di introdurre un’etichettatura che indichi il ‘benessere animale’, ma secondo Greenpeace, la proposta formulata è fuorviante, perché così i facendo i consumatori non sapranno mai se la carne che stanno mangiando proviene da un allevamento intensivo oppure no. Vediamo cosa sta succedendo.

Mentre la Commissione europea ha appena deciso di vietare entro il 2027 l’uso delle gabbie all’interno degli allevamenti, c’è tutta un’altra questione che fa discutere, ovvero la certificazione ‘benessere animale’.

In Italia, ministeri delle Politiche agricole e della Salute stanno lavorando a un sistema di certificazione su base volontaria del “benessere animale”, basato sulla classificazione “ClassyFarm”. Alla fine di questo processo sarà probabilmente istituita una nuova etichetta di “benessere animale”, applicata ai prodotti alimentari di origine animale e ottenuta secondo i criteri stabiliti dai due ministeri.

Seppur le informazioni su quel che sarà per adesso sono poche e frammentarie, Greenpeace ha già preso una posizione netta dicendo che: “i criteri scelti sono assolutamente insufficienti a garantire un reale miglioramento del benessere animale. Le nuove etichette rischiano così di essere fuorvianti, illudendo le persone di poter acquistare prodotti più rispettosi del benessere animale, e penalizzanti per gli allevatori virtuosi, già impegnati in una vera transizione dei sistemi di allevamento, i cui prodotti verrebbero equiparati a quelli provenienti dagli allevamenti intensivi”.

Per capire meglio, l’organizzazione fa un esempio. Secondo i criteri previsti nella proposta, per ottenere la certificazione di “benessere animale” basterebbe allevare un suino di 170 kg in poco più di un metro quadrato di spazio (il minimo stabilito dalla legge), o che tra le misure ammissibili rientrerebbero anche interventi come la costruzione di biodigestori per i liquami zootecnici.

“Una misura, quest’ultima, che non solo non ha nulla a che vedere con il benessere animale, ma che spesso richiede contesti con densità molto elevate, in cui il benessere animale e la sostenibilità difficilmente possono essere garantiti”, spiega ancora Greenpeace.

Quello che succede negli allevamenti intensivi noi lo raccontiamo ogni giorni. Animali ammassati e costretti a vivere tra escrementi e topi, spazi ristretti, rischio infezioni, bombe batteriologiche. Per queste ragioni Greenpeace e diverse altre associazioni chiedono da tempo di adottare criteri più ambiziosi, che portino a una certificazione con diversi livelli progressivi di benessere animale, al chiuso e all’aperto, per incoraggiare gli allevatori a migliorare gradualmente i metodi di allevamento puntando ad una progressiva riduzione delle densità animali e al superamento dei metodi di allevamento intensivi.

“Per mettere gli allevatori nelle condizioni di realizzare questa transizione serve però una comunicazione chiara e trasparente in etichetta affinché i consumatori possano conoscere il metodo di allevamento utilizzato e il livello di benessere animale raggiunto, con una classificazione di tipologia simile a quella già in uso per le uova”, dice ancora Greenpeace.

Una simile etichetta per la carne è impiegata da tempo su base volontaria nei supermercati tedeschi, e pochi giorni fa una delle principali catene del Paese, ALDI, si è impegnata a eliminare gradualmente dai suoi scaffali di carne fresca i prodotti appartenenti alle due categorie più basse del benessere animale, con l’obiettivo di offrire ai clienti solo prodotti con i due standard più elevati entro il 2030.

Fonte: Greenpeace

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