Il primo colore blu della storia trovato in un fossile di un uccello preistorico

Le prime tracce del colore blu note all'uomo potrebbero appartenere a un antico uccello preistorico estinto. Un team di scienziati dell'Università di Sheffild ha esaminato l'Eocoracias brachyptera e sostiene di aver identificato per la prima volta i resti del colore nei fossili

Le prime tracce del colore blu note all’uomo potrebbero appartenere a un antico uccello preistorico estinto. Un team di scienziati dell’Università di Sheffild ha esaminato l’Eocoracias brachyptera e sostiene di aver identificato per la prima volta i resti del colore nei fossili.

Il blu è uno dei colori più difficili da trovare. Le piume blu, verdi e iridescenti, come quelle di un colibrì, sono caratterizzate dai cosiddetti colori strutturali. A differenza dei colori normali, essi non derivano da un pigmento o più ma nascono dalla disposizione di strutture molecolari capaci di riflettere la luce da diverse angolazioni. In natura tra gli esempi più noti troviamo le piume di pavone o le ali delle farfalle.

Merito degli scienziati è stato quello di trovare la prima testimonianza di questo colore nel regno animale finora nota. Il fortunato era un uccello vissuto 48 milioni di anni fa. La forma e le dimensioni di quelle piccole strutture contenenti pigmenti e l’albero genealogico dell’uccello suggeriscono che esso avesse il piumaggio blu.

I ricercatori hanno esaminato 72 campioni di piume di uccelli moderni di colori diversi e 12 campioni di materiale organico raccoltio dal piumaggio fossilizzato di E. brachyptera. A quel punto, hanno analizzato la forma e le dimensioni di un tipo di struttura cellulare contenente un pigmento chiamato melanosoma trovato all’interno delle penne, per “dipingere” un quadro di questi antichi animali.

Cosa sono i melanosomi

I melanosomi coinvolti nella produzione di diversi colori sono disponibili in diverse forme e dimensioni. I colori nero, marrone e grigio sono prodotti dai pigmenti. I colori strutturali, sia iridescenti che blu o verdi, sono prodotti in due fasi: la luce viene rifratta da uno strato di cheratina riempito d’aria all’interno della piuma, e uno strato sottostante di melanosomi assorbe il resto delle lunghezze d’onda della luce. Nel caso del blu, questa configurazione include uno strato di cheratina spugnoso e pieno d’aria che copre uno strato di melanosomi contenenti pigmento nero.

fossili colori

“Lo strato superiore è strutturato in modo tale da rifrangere la luce in lunghezze d’onda blu”, spiega Frane Babarović, biologa evolutiva dell’Università di Sheffield, in Inghilterra. “I melanosomi sottostanti assorbono il resto della luce”.

La cheratina non è generalmente ben conservata nei fossili, ma i melanosomi lo sono, da qui la scelta di Babarović e colleghi di studiare le forme dei melanosomi delle piume blu. Hanno così confermato che i melanosomi degli uccelli moderni di colore blu, come quelli di E. brachyptera, avevano davvero una forma unica, erano lunghi (circa 1.400 nanometri) e relativamente larghi (circa 300 nanometri), più grandi dei melanosomi trovati nelle penne nere.

Ma c’è una zona di sovrapposizione: i melanosomi per i colori strutturali non iridescenti sono simili per dimensioni e forma a quelli dei pigmenti grigi. La forma della microstruttura dell’antico uccello era simile a quella dei melanosomi pigmentati legati al colore grigio.

fossili blu

Ciò potrebbe significare che il blu e il grigio siano collegati dal punto di vista evolutivo. La sovrapposizione rende difficile sapere se un uccello antico fosse solo blu o, come è più comune negli uccelli moderni, grigio. Ma una volta che il blu si è evoluto all’interno di un particolare gruppo familiare, il colore ha continuato a manifestarsi in altri membri della famiglia.

Molti dei moderni parenti di E.brachyptera, come i martin pescatori e i kookaburra, hanno le penne blu. Un campo finora poco esplorato ma che si annuncia ricco di sorprese e che arricchirà le nostre conoscenze relative alla tavolozza preistorica della natura.

Lo studio è stato pubblicato sul Journal of the Royal Society Interface.

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Francesca Mancuso

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