Un mare di trivelle: 70 nuove piattaforme petrolifere col decreto “Cresci Italia”

Stop alle trivelle nei nostri mari. Lo chiedono gli ambientalisti. Lo pretendono a gran voce Greenpeace, Legambiente e il WWF

Stop alle trivelle nei nostri mari. Lo chiedono gli ambientalisti. Lo pretendono a gran voce Greenpeace, Legambiente e il WWF, che temono l’arrivo di 70 piattaforme petrolifere in mare con l’articolo 35 del decreto “Cresci Italia” (d.l. 83/2012).

Quest’ultimo, infatti, sebbene estenda a tutta la fascia costiera la zona off limits delle 12 miglia per le nuove richieste di estrazione di idrocarburi dalle acque marine, ha qualcosa che non piace affatto agli ambientalisti: consente la riapertura di tutti i procedimenti per la prospezione, ricerca ed estrazione di petrolio che erano stati bloccati nel giugno di due anni fa dal decreto legge n. 128/2010, il cosiddetto “correttivo ambientale”, approvato all’indomani del terribile incidente della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico.

Presenti oggi al Senato con il convegno “Trivelle d’Italia”, i rappresentati di Greenpeace, Legambiente e WWF hanno messo nero su bianco tutti i problemi non solo ambientali ma anche economici di questa scelta. All’incontro erano presenti tra gli altri anche i senatori Francesco Ferrante, Roberto Della Seta, Antonio D’Alì e Daniela Mazzuconi, firmatari di un disegno di legge per abrogare l’articolo 35.

Secondo gli ambientalisti, il famigerato articolo 35 del decreto “Cresci Italia” stabilisce di fare salvi i procedimenti concessori (…) in corso, ma anche i procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi che siano stati avviati al 29 giugno 2010. E c’è un’altra cosa da sapere. Sebbene la fascia off-limits delle 12 miglia non sia scesa a 5 miglia, rischio corso di recente, col nuovo decreto partirà dalle linee di costa, dalla battigia e non come era stabilito precedentemente dalle linee di base, che includono golfi e insenature. “Nella sostanza, anziché garantire i soli titoli acquisiti, come ha tentato di accreditare il ministro dello Sviluppo economico Passera, si mettono così a rischio ampissime porzioni delle acque territoriali italiane, anche all’interno delle fasce d’interdizione introdotte nel giugno 2010 a tutela delle aree protette. Un colpo di spugna che potrebbe dare il via libera ad almeno 70 piattaforme di estrazione di petrolio che si sommerebbero alle 9 già attive nel mare italiano per un totale di 29.700 kmq di mare tra Adriatico centro meridionale, Canale di Sicilia, mar Ionio e golfo di Oristano, praticamente una superficie più grande della Sicilia” lamentano le associazioni.

E tutto questo per cosa? Il vantaggio economico non sarebbe neanche rilevante visto che i quantitativi di petrolio in gioco sono comunque esigui. Oggi, la produzione italiana di petrolio equivale allo 0,1% del prodotto globale e il nostro Paese è al 49esimo posto tra i produttori. Stando alle ultime cifre segnalate dal Ministero dello Sviluppo economico, dicono gli ambientalisti che i nostri fondali hanno ancora 10,3 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe. Nulla o quasi, visto che servirebbero a soddisfare il fabbisogno energetico nazionale per sole 7 settimane. Non solo: anche attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi.

Che utilità potrebbe avere allora rilanciare questo settore? La Strategia energetica nazionale di Passera basata sul petrolio, almeno secondo il ministro porterebbe 25 mila nuovi posti di lavoro. Ma solo per pochi anni. Pochi sanno che il nostro paese è una sorta di paradiso fiscale per i petrolieri, perché esistono meccanismi che riducono a nulla il rischio d’impresa, a danno dell’ambiente. Come hanno spiegato gli ambientalisti in un comunicato, le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, come le prime 50 mila tonnellate di petrolio estratte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas in terra e i primi 80 milioni di metri cubi in mare sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato. Ma non è finita qui: “Le aliquote (royalties) sul prodotto estratto sono di gran lunga le più basse al mondo e sulle 59 società operanti in Italia nel 2010 solo 5 le pagavano (ENI, Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed ENI/Mediterranea idrocarburi)“.

Sì, è vero che il decreto “Cresci Italia” ha previsto un incremento delle royalties dal 7 al 10% per il gas e del 4% al 7% per il petrolio ma è nulla rispetto alla media degli altri Paesi, in cui tali cifre vanno dal 20% all’80%.

Favorire nuove trivellazioni significa mettere a rischio i nostri mari visto che spesso i pozzi e le piattaforme off-shore sono localizzate in aree marine di alto pregio ambientale, se non protette come nel caso delle Tremiti. Una delle prime linee della vertenza contro le trivellazioni è il Canale di Sicilia, dove sono cresciute le richieste per le esplorazioni off-shore. I permessi di ricerca già concessi nell’area sono 11, e 18 le nuove richieste per ricerca di idrocarburi in via di valutazione. I permessi per l’estrazione di idrocarburi già concessi sono tre, per un totale di quattro piattaforme attive al largo delle coste siciliane, e tre sono le concessioni di coltivazione in via di valutazione.

Non va meglio nell’Adriatico centro-meridionale, sebbene il Tar abbia accolto il ricorso degli ambientalisti e degli enti locali contro il parere di compatibilità ambientale del Ministero dell’Ambiente a favore della società Petroceltic.

Francesca Mancuso

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