I rifiuti di plastica più pericolosi al mondo non sono buste e mascherine, hai mai sentito parlare dei nurdles?

Si chiamano “nurdles”, sono minuscoli frammenti di plastica galleggianti negli oceani e provocherebbero danni al pari degli sversamenti di petrolio, anche se non sono stati ancora classificati come “pericolosi”

Ricordate l’affondamento della nave portacontainer X-Press Pearl, avvenuto lo scorso maggio a largo delle coste srilankesi? In quella occasione, oltre 350 tonnellate di petrolio si riversarono nell’oceano, provocando danni incalcolabili al fragile ecosistema delle barriere coralline e all’economica basata sulla pesca. Tuttavia, c’è un disastro ecologico ancor più imponente derivante da quell’inabissamento, di cui si è parlato troppo poco: 87 contenitori presenti sulla nave hanno riversato nell’oceano il loro contenuto fatto di minuscole palline di plastica delle dimensioni di una lenticchia – i nurdles.

In poco tempo, queste “lenticchie” di plastica si sono diffuse grazie alle correnti oceaniche e hanno percorso centinaia di miglia, raggiungendo le coste dell’Indonesia, della Malesia e della Somalia. Ma non solo: sono finite nelle bocche di pesci e altri animali marini, provocando la morte per soffocamento di centinaia di esseri viventi. Insomma, sono molto più insidiosi di mascherine e buste di plastica.

Cosa sono esattamente i nurdles?

Si tratta pellet di plastica pre-produzione, ovvero gli elementi grezzi alla base della produzione di tutti i prodotti in plastica che utilizziamo ogni giorno: possono essere realizzati in polietilene, polipropilene, polistirene, cloruro di polivinile e altre materie plastiche. 

(Leggi anche: Pesci di plastica: trovate microplastiche nell’83% dei pesci del Bangladesh)

Se dispersi nell’ambiente, finiscono spesso nei corsi d’acqua e nei mari – dove affonderanno o galleggeranno a seconda della densità dei pellet e della presenza di acqua dolce o salata. Purtroppo, sono frequentemente scambiati per cibo da uccelli marini, pesci e altri animali selvatici, che li ingeriscono con esiti spesso fatali.

Se non vengono “mangiati”, si decompongono nell’ambiente in microplastiche, con rischi complessi per la sopravvivenza degli ecosistemi. I nurdles rappresentano la seconda fonte di microinquinanti nell’oceano dopo la polvere dei pneumatici: si stima che, ogni anno, ben 230.000 tonnellate di “lenticchie” finiscano negli oceani disperse durante il loro trasporto.

Proprio come il temutissimo greggio, anche i nurdles sono inquinanti altamente persistenti e la loro presenza nelle correnti oceaniche resta per decenni. Inoltre, sono anche delle vere e proprie spugne tossiche in grado di attirare tossine chimiche ed altre sostanze inquinanti sulla loro superficie – ma anche batteri, come l’E. coli.

Tuttavia, diversamente da altre sostanze come cherosene, diesel e benzina, i nurdles non sono considerati pericolosi secondo il codice delle merci pericolose dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) per la manipolazione e lo stoccaggio in sicurezza – nonostante la minaccia per l’ambiente rappresentata dai pellet di plastica sia nota ormai da decenni.

Ecco perché ora gli ambientalisti stanno unendo le forze con il governo dello Sri Lanka nel tentativo di trasformare il disastro di X-Press Pearl in un motore per il cambiamento di questo codice. Classificare i nurdles come pericolosi, come nel caso degli esplosivi, dei liquidi infiammabili e di altre sostanze dannose per l’ambiente, li renderebbe soggetti a condizioni più rigorose per la spedizione – come per esempio metodi di stoccaggio più sicuri, imballaggi più robusti ed etichettature più chiare; inoltre, sarebbero soggetti a protocolli di risposta ai disastri che possono, se attuati in caso di emergenza, prevenire i peggiori impatti ambientali.

In attesa che la politica si attivi in risposta agli stimoli delle associazioni ambientaliste, in Sri Lanka si contano i danni nell’area del naufragio. Molti delle 470 tartarughe, 46 delfini e 8 balene che si sono spiaggiati a riva dopo il disastro avevano “lenticchie” di plastica nei loro organismi. Nel frattempo, sono 20mila le famiglie che hanno dovuto interrompere le attività di pesca che davano loro da vivere.

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Fonti: The Guardian / Nazioni Unite

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