Navi dei veleni: un dossier di Greenpeace per scoprire la verità sul traffico di rifiuti tossici

Cinque fotografie. Datate, ma inedite e scottanti. Cinque immagini che risalgono al 1997, e attraverso le quali Greenpeace, che ha comunicato di avere ottenuto le foto da un Pubblico ministero, oggi diffonde una nuova inchiesta, dal titolo inequivocabile: “Le navi tossiche: lo snodo italiano, l'area mediterranea e l'Africa”, con la quale l'organizzazione ambientalista chiede alle Nazioni unite una indagine su come sia stato costruito il porto di Eel Ma'aan, a 30 km da Mogadiscio, e sul traffico di rifiuti.

Cinque fotografie. Datate, ma inedite e scottanti. Cinque immagini che risalgono al 1997, e attraverso le quali Greenpeace, che ha comunicato di avere ottenuto le foto da un Pubblico ministero, oggi diffonde una nuova inchiesta, dal titolo inequivocabile: “Le navi tossiche: lo snodo italiano, l’area mediterranea e l’Africa, con la quale l’organizzazione ambientalista chiede alle Nazioni unite una indagine su come sia stato costruito il porto di Eel Ma’aan, a 30 km da Mogadiscio, e sul traffico di rifiuti.

Il dossier, diffuso questa mattina, Riassume la vergognosa epopea dei trasporti di scorie tossiche e radioattive smaltite illegalmente, soprattutto in Africa, negli ultimi 15 anni” .

Nelle immagini, che Greenpeace ha divulgato oggi, si nota come la costruzione del porto di Eel Ma’aan, in Somalia, non venne realizzata con l’utilizzo di pietre o materiale di riporto. Ma mediante dei container, che si vedono chiaramente in una delle immagini. Uno scatto inquietante, nel quale vengono ritratti due uomini: uno impugna una pistola a tamburo, un revolver. Dietro di loro, una fila di container.

Gli stessi contenitori che si vedono in un’altra foto, ammassati all’interno di una enorme fossa. Una successiva immagine mostra un container, di colore blu, che spunta da una banchina. Riassume il tutto, una foto che evidenzia una panoramica dei cantieri.

E questo, secondo gli attivisti dell’associazione ambientalista, può voler dire solo una cosa: lo scalo di Eel Ma’aan è stato costruito con un massiccio impiego di container. Cosa vi fosse contenuto all’interno, è il nocciolo della questione.

Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia, chiama a raccolta l’opinione pubblica su questo caso:Abbiamo tutti il diritto di conoscere quello che è stato faticosamente raccolto da chi ha indagato per far luce su questi traffici criminali. Ora esiste una mole impressionante di fatti e dati che, anche se pur non ha prodotto una verità giudiziaria, può permettere la ricostruzione di una verità storica ormai matura”.

Un porto costruito sul veleno

Greenpeace, con la pubblicazione di questo materiale fotografico, chiede che venga dato il via alla ricostruzione di una verità storica: la vicenda del traffico dei rifiuti verso la Somalia.

Dunque: cosa c’è “sotto”?Le testimonianze raccolte, negli ultimi 15 anni, da magistrati, investigatori, parlamentari, giornalisti e semplici cittadini”, e che si trovano in possesso della Magistratura italiana, “Dimostrano che il porto di Eel Ma’aan venne costruito (da degli imprenditori italiani) con l’interramento nei moli di centinaia di container di provenienza assai sospetta”.

Di più. Greenpeace rende noto che già oltre un decennio fa si poteva conoscere il carico dei container:Una nota della polizia giudiziaria del 24 maggio 1999 indica che ‘I container interrati nel porto di Eel Ma’aan erano pieni di rifiuti. Fanghi, vernici, terreno contaminato da acciaierie, cenere di fili elettrici’”.

Una storia lunga più di 20 anni

L’inchiesta resa nota oggi da Greenpeace non è che l’ultimo capitolo (in ordine di tempo) di una storia che va avanti da più di vent’anni, e che la stessa organizzazione tiene a riassumere. Lo smaltimento delle scorie tossiche e radioattive “parte” dalla seconda metà degli anni 80, e da attività individuale si è negli anni trasformata e ha assunto i connotati di una “rete” di persone e di imprese che, seppure segnalati agli inquirenti e ai magistrati, in alcuni casi l’hanno fatta franca.

Da qui il sospetto che molti di questi soggetti continuino a operare. La “storia delle navi dei veleni” parte dal periodo 1987 – 89, dalla Lynx alla Radhost, alla Jolly Rosso, la Cunski, la Rigel; prosegue con l’intervento delle imprese con sede in Svizzera, nel Liechtenstein, in Gran Bretagna e collegate alla creazione di nuove imprese nei “paradisi fiscali”: Panama, le Isole Vergini.

Non è facile ricostruire gli itinerari compiuti da questi traffici. Si sa che hanno interessato dei Paesi esportatori (fra i quali l’Italia), snodi commerciali come la Romania e si sono sempre conclusi in aree diverse fra loro ma tutte accomunate dalla carenza di efficaci infrastrutture, di valide politiche di controllo e concrete normative sulla gestione dei rifiuti: dal Libano alla Somalia, da Haiti alla Costa d’Avorio.

C’è chi ha pagato con la vita

Lo smaltimento dei rifiuti tossici è, dunque, da tanti anni un argomento sul quale si sono concentrate le indagini. E, purtroppo, c’è chi ha pagato molto cara la propria ricerca della verità, come la giornalista della Rai Ilaria Alpi e il videooperatore Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio nel marzo 1994 mentre indagavano su un caso di traffico di armi e sui rifiuti tossici.

La richiesta di Greenpeace alle Nazioni Unite e alla Comunità europea

E arriviamo a oggi. Con la (corposa) documentazione raccolta, Greenpeace chiede alle Nazioni Unite di iniziare “Una valutazione indipendente della presunta discarica di rifiuti tossici in Somalia, e in particolare nell’area del porto di Eel Ma’aan”.

Dal canto suo, l’ Unione europea è invitata a “Rilanciare la realizzazione delle politiche di prevenzione alla produzione di rifiuti pericolosi”.

Al Governo italiano: “Scovate i relitti delle navi dei veleni”

L’invito a un’indagine più efficace viene, è chiaro, esteso al Governo italiano, il quale, secondo Greenpeace, deve creare una rete di indagine congiunta per smascherare i traffici di rifiuti pericolosi:Occorre un coordinamento fra le Procure della Repubblica che investigano sul traffico dei rifiuti pericolosi e radioattivi, per neutralizzare la rete di soggetti e imprese che gestiscono i traffici verso i Paesi in via di sviluppo, e utilizzano il mare come una discarica”.

Bisogna, poi, scovare tutti i relitti delle navi dei veleni. Individuarle, censirle, bonificarle. Un compito, indica Greenpeace, da affidare al Ministero dell’Ambiente: Deve creare una autorità operativa per compilare un censimento di tutte le attività di ricerca che riguardano l’inquinamento da sostanze tossiche e radioattive, in mare aperto e nelle acque di superficie e nei sedimenti”.

Questa “autorità” dovrebbe agire insieme ai soggetti che, sul mare, ci lavorano: Operatori del mare e pescatori, dai quali l’autorità deve ricevere informazioni valide all’elaborazione di una ricerca mirata, assieme agli Istituti indipendenti di ricerca, ai possibili relitti delle ‘navi dei veleni’”, come il relitto della nave scoperto alla fine dell’estate scorsa al largo di Cetraro, lungo la costa calabrese.

L’operazione di bonifica delle “navi dei veleni”, infine, deve essere messa in atto dal Ministero dell’Ambiente stesso, assieme al Dipartimento di Protezione civile”.

Piergiorgio Pescarolo

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