La Svizzera ha condannato il “magnate dei diamanti”: è il più grande caso di corruzione nel settore minerario

L’industria mineraria globale è travolta da uno scandalo senza precedenti. Lo scorso 22 gennaio, il Tribunale correzionale di Ginevra ha condannato il miliardario franco-israeliano Beny Steinmetz a cinque anni di carcere, nonché alla restituzione di una somma pari a 50 milioni di franchi.

Il noto tycoon del settore minerario è stato condannato per i reati di corruzione di pubblici ufficiali stranieri in Guinea e falso in documento. Tra il 2005 e il 2010, Steinmetz avrebbe infatti versato tangenti in cambio del rilascio di licenze di estrazione nella Repubblica di Guinea. Secondo quanto accertato da Alexandra Banna, il giudice che ha emesso la sentenza di condanna, il ricco magnate dei diamanti e dei minerali sarebbe implicato in tutte le controverse fasi che avrebbero condotto all’illecita attribuzione delle suddette licenze minerarie. Steinmetz avrebbe inoltre favorito l’intervento di terzi per ottenere tali concessioni.

Il caso Steinmetz

L’indagine sul caso era stata avviata nel 2013. Il processo si è svolto in Svizzera poiché gran parte delle attività della prestigiosa multinazionale mineraria Beny Steinmetz Group Resources (BSGR), operativa in Guinea e Sierra Leone, seguiva le direttive impartite da Ginevra. Incriminato e convocato a giudizio dal Procuratore di Ginevra Yves Bertossa nell’agosto 2019, il 64enne Steinmetz, cittadino israeliano residente a Ginevra fino al 2016, ha sempre negato ogni responsabilità, diretta o indiretta, nella vicenda. Egli conferma di essere proprietario e ambasciatore della multinazionale BSGR ma nega di aver ricoperto un qualsivoglia ruolo direttivo all’interno del gruppo industriale, alle cui dipendenze lavorano 100.000 persone. Marc Bonnant, avvocato della difesa, in accordo con lo stesso Steinmetz, ha annunciato che presenterà ricorso avverso la sentenza di condanna del giudice della corte di Ginevra.

Il clamore destato dal caso Steinmetz, seguito dal Tribunale di Ginevra − che nel corso delle indagini ha raccolto ben 250 file di documentazione − getta nuova luce sull’uso improprio dei paradisi fiscali, ormai diventati un indispensabile supporto per condurre attività corruttive e criminali in paesi dove la regolamentazione e la governance di settori industriali strategicamente importanti sono deboli o pressoché assenti.

Il tribunale svizzero ha condannato a pene detentive e pecuniarie anche altri due coimputati, colleghi di Steinmetz. La direttrice amministrativa a Ginevra della BSGR, di nazionalità belga, è stata condannata a due anni di prigione con la condizionale e deve restituire 50.000 franchi, mentre l’intermediario francese in Guinea, a cui è stata inflitta una pena di tre anni e mezzo di prigione, è tenuto alla restituzione di cinque milioni di franchi.

Il “patto di corruzione”

Secondo quanto accertato dalla giustizia elvetica, i tre imputati, a seguito del “patto di corruzione” stretto nel 2015 tra l’allora presidente della Repubblica di Guinea Lansana Conté (al potere dal 1984 fino alla sua morte nel 2008), sua moglie Mamadie Touré, e la BSGR, tra il 2006 e il 2012 avrebbero versato tangenti per un ammontare complessivo di 10 milioni di dollari alla signora Touré – l’influente quarta moglie di Conté, ora residente in Florida – servendosi di una fitta e “opaca” rete di banche e di società di copertura, istituite ad hoc per condurre la criminosa operazione.

Per mezzo delle tangenti, la BSGR avrebbe scavalcato il suo competitor (il gruppo minerario anglo-australiano Rio Tinto) e automaticamente ottenuto i diritti di estrazione, per tre anni, sull’inesplorata miniera di Simandou, un gigantesco giacimento di ferro nascosto tra le viscere dei monti Simandou, nella regione sudorientale della Guinea, in Africa occidentale. Tra il luglio e il dicembre 2008, alla multinazionale Rio Tinto Group erano state inspiegabilmente ritirate le concessioni minerarie relative ai blocchi 1 e 2 del progetto Simandou Nord. Grazie alle presunte tangenti sborsate, il Gruppo BSGR si sarebbe quindi assicurato le autorizzazioni in cambio di un investimento da 160 milioni di dollari, il 51% del quale sarebbe stato poi ceduto, a distanza di 18 mesi, alla società mineraria brasiliana Vale per 2,5 miliardi di dollari, traendone enormi profitti tramite la creazione di una joint venture per lo sviluppo della grande miniera. Tuttavia, nel 2014 il nuovo presidente democraticamente eletto della Repubblica di Guinea, Alpha Condé, ha rivendicato i diritti nazionali di estrazione sui blocchi 1 e 2 del sito minerario di Simandou. Condé ha denunciato l’ingiusta assegnazione a BSGR e al suo partner Vale SA della concessione mineraria, considerata illegale per via delle pendenti accuse di corruzione legate al pagamento di tangenti.

L’industria mineraria globale nel mirino della giustizia internazionale

In realtà, è da oltre un decennio che va avanti la disputa sul controllo e sulla gestione internazionale delle preziose risorse minerarie di Simandou e di altri siti minerari africani. A seguito del boom commerciale della Cina all’inizio degli anni 2000, le ingenti risorse naturali dell’Africa hanno infatti attratto le multinazionali del settore, alla ricerca di nuove fonti di profitto.

L’atto di denuncia del presidente della Guinea è incredibilmente riuscito a generare un’ondata di indagini giudiziarie che hanno coinvolto le principali multinazionali minerarie del mondo. La Rio Tinto, ad esempio, è perseguita negli Stati Uniti a causa del presunto pagamento di circa 10,5 milioni di dollari di tangenti a un consulente che avrebbe garantito alla multinazionale anglo-australiana le concessioni minerarie sui blocchi 3 e 4 di Simandou.

Inoltre, la recente condanna di Steinmetz in Svizzera non ha messo fine alle controversie legali che lo coinvolgono. La multinazionale brasiliana Vale ha reclamato i 2 miliardi di dollari assegnati alla BSGR, aprendo un caso di arbitrato a Londra. Si presume che il Gruppo della famiglia Steinmetz sia colpevole di dichiarazioni fraudolente nel corso dei negoziati di joint venture conclusi con Vale nel 2010.

Potrebbe riaccendersi anche un’altra importante battaglia di arbitrato, che coinvolge BSGR e il governo della Repubblica di Guinea. Il Gruppo BSGR aveva ritirato le proprie rivendicazioni sui blocchi 1 e 2, nel quadro di un accordo siglato nel febbraio 2019 con il governo guineano, in cui entrambe le parti avevano concordato di interrompere ogni eventuale azione legale rimasta in sospeso. Tra i termini dell’accordo, figuravano il formale riacquisto dei diritti di BSGR su Simandou e la possibilità di ulteriori investimenti nel deposito di Zogota, il cui sviluppo era nelle mani di Mick Davis, proprietario della multinazionale mineraria londinese Niron Metals.

Tuttavia, l’accordo non fu mai sottoscritto dagli amministratori di BSGR, che ora avrebbero addirittura deciso di non approvarlo. Se così fosse, l’International Centre for Settlement of Investment Disputes della Banca Mondiale, adito dalla BSGR nel settembre 2014 per protestare contro la revoca dei diritti estrattivi da parte del governo della Guinea, potrebbe riaprire il caso. Ne seguirebbe quindi una decisione finale in merito all’accusa di appropriazione indebita avanzata dal Gruppo BSGR e alla controdenuncia della Repubblica di Guinea. 

Fonti: Reuters/Guardian/FT

Leggi anche:

Rio Tinto, il colosso minerario accusato di avvelenare fiumi e terreni in Papua Nuova Guinea

 

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin
Iscriviti alla newsletter settimanale
Seguici su Facebook