Copenaghen, gli stati-atollo in rivolta

Continuano le proteste a Copenhagen. Questa volta a sfaldarsi è la compagine dei piccoli stati, soprattutto dell'Aosis.

Continuano le proteste a Copenaghen. Dopo le manifestazioni di ieri provocate dalle indiscrezioni su una proposta dalla Danimarca, nelle ultime ore gli esiti del summit sono stati resi ancora più complessi non solo a causa della querelle tra i paesi “ricchi” e quelli “poveri” ma anche per colpa di una spaccatura interna alla compagine dei paesi poveri del G77, o per meglio dire in via di sviluppo.

Ieri, infatti, Dessima Williams, rappresentante di Granada e dell’Aosis, l’Associazione dei piccoli stati insulari, ha messo in luce la necessità di un trattato vincolante, più duro del protocollo di Kyoto, nella lotta al global warming. Questi stati, ricordiamo, corrono il rischio di essere sommersi a causa del surriscaldamento.

In prima linea si è schierato Tuvalu, un arcipelago della Polinesia, che ha chiesto e ottenuto una sospensione dei negoziati fino alla soluzione del problema. Ad aderire alla protesta sono stati gli altri membri dell’Aosistra cui le Isole Cook, le Barbados e Fiji, e alcuni paesi africani, come la Sierra Leone, il Senegal e Capo Verde.

Ma qual è la richiesta di tali paesi? Fermare la crescita delle temperature globali a 1,5 gradi centigradi e la concentrazione dei gas serra a 350 parti per milione, contro i 2 gradi e i 450 proposti dai paesi ricchi e da alcuni paesi in via di sviluppo. Soprattutto Cina, India e Sudafrica si sono schierate apertamente contro questa presa di posizione, perché ne vedono un limite alla loro espansione economica.

La Cina dal canto suo, chiede più tagli alle emissioni di gas serra da parte dei paesi industrializzati, ossia entro il 2020 questi ultimi devono tagliare almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990.

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