Entro la fine del secolo, non si potranno più coltivare cereali in Sicilia, Sardegna e Puglia per colpa della crisi climatica

A causa della crisi climatica più di un terzo dell'attuale produzione alimentare globale potrebbe uscire fuori da uno "spazio climatico sicuro" entro la fine del secolo.

Tra qualche decennio saremo costretti a dire addio alle coltivazioni di cereali nel nostro Paese, in particolare nelle aree del Sud come la Sardegna, la Puglia e la Sicilia. Sono queste le previsioni choc fatte dagli studiosi finlandesi dell’Università di Aalto. Le conseguenze della crisi climatica sull’agricoltura e l’allevamento erano già note, ma lo studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista One Earth ci fornisce delle nuove indicazioni sulle aree del Pianeta più interessate da tali stravolgimenti entro la fine del secolo. 

“La nostra ricerca mostra che la crescita rapida e fuori controllo delle emissioni di gas a effetto serra potrebbe portare, entro la fine del secolo, più di un terzo dell’attuale produzione alimentare globale fuori da uno spazio climatico sicuro” spiega Matti Kummu, ricercatore dell’Università di Aalto specializzato nella gestione delle risorse idriche. 

Nello studio, per “spazio climatico sicuro” gli studiosi intendono quelle aree in cui avviene attualmente il 95% della produzione agricola, grazie a una combinazione di tre fattori climatici, ovvero: pioggia, temperatura e aridità. 

“La buona notizia è che soltanto una frazione della produzione alimentare affronterebbe condizioni ancora a noi sconosciute, se riducessimo collettivamente le emissioni, limitando il riscaldamento globale a 1,5-2 gradi Celsius” sottolinea Kummu. 

agricoltura crisi climatica

@One Earth

Le aree del Pianeta in cui la produzione agricola rischia di crollare

La crisi climatica minaccia in particolare la produzione alimentare nelle aree dell’Asia meridionale e sud-orientale, nonché la regione africana del Sahel in Africa. Si tratta, infatti, di zone che non riuscirebbero ad adattarsi alle nuove condizioni. 

“La produzione alimentare come la conosciamo si è sviluppata in un clima abbastanza stabile, durante un periodo di lento riscaldamento che ha seguito l’ultima era glaciale. La continua crescita delle emissioni di gas serra può creare nuove condizioni e le colture alimentari e il bestiame non avranno tempo per adattarsi ” spiega il ricercatore Matias Heino, uno degli autori principali dello studio. 

Per condurre lo studio sono stati utilizzati due scenari futuri legati agli effetti dei cambiamenti climatico: uno che prevede una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica (1,5-2 gradi Celsius) e un altro nel quale le emissioni continuano ad aumentare. 

I ricercatori hanno valutato come il cambiamento climatico avrebbe influenzato 27 delle colture alimentari più importanti e sette diversi tipi di bestiame, tenendo conto delle diverse capacità delle società di adattarsi ai cambiamenti. I risultati mostrano che le minacce colpirebbero Paesi e continenti in modi diversi: in 52 dei 177 Paesi anlizzati, l’intera produzione alimentare rimarrebbe nello spazio climatico sicuro in futuro. Questi includono la Finlandia e altri Stati europei. Tuttavia, l’Italia rientra tra le aree in cui l’agricoltura, in particolare la produzione cerealicola, risentirebbe degli effetti devastanti della crisi climatica. Sicilia, Puglia e Sardegna sarebbero le Regioni più colpite dal fenomeno. 

agricoltura crisi climatica

@One Earth

Ma a pagare il prezzo più alto sarebbero i Paesi già vulnerabili come la Cambogia, il Ghana, il Niger e il Suriname, dove il 95% cento dell’attuale produzione alimentare sarebbe a rischio. Come evidenziato dai ricercatori finlandesi, queste nazioni hanno anche una capacità significativamente inferiore di adattarsi ai cambiamenti causati dai cambiamenti climatici rispetto ai ricchi Paesi occidentali. In totale, il 20% della produzione agricola mondiale e il 18% della produzione di bestiame minacciata si trovano, infatti, in Paesi con scarsa capacità di adattamento ai cambiamenti.

Nel caso in cui le emissioni di anidride carbonica fossero tenute sotto controllo, i ricercatori stimano che “la più grande zona climatica del mondo di oggi – la taiga, che si estende attraverso il Nord America del Nord, la Russia e l’Europa – si ridurrebbe dagli attuali 18,0 a 14,8 milioni di chilometri quadrati entro il 2100.”

Ciò significa che se non fossimo in grado di ridurre le emissioni, rimarrebbero solo circa 8 milioni di chilometri quadrati di foresta boreale.

“Il cambiamento sarebbe ancora più drammatico in Nord America: nel 2000, la zona copriva circa 6,7 ​​milioni di chilometri quadrati ed entro il 2090 potrebbe ridursi a un terzo.” si legge nello studio. 

E per la tundra artica lo scenario potrebbe essere anche peggiore: si stima che potrebbe scomparire completamente  nel caso in cui non si intervenisse in maniera efficace per rallentare la crisi climatica. 

“Se lasciamo crescere le emissioni, l’aumento delle aree desertiche sarà particolarmente preoccupante perché in queste condizioni quasi nulla può crescere senza irrigazione. Entro la fine di questo secolo, potremmo vedere più di 4 milioni di chilometri quadrati di nuovo deserto in tutto il mondo” chiarisce Kummu.

Fonte: One Earth/Aalto University

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