“Panni Sporchi” di Greenpeace per svelare i segreti dell’industria tessile in Cina

A noi la moda piace critica. Cerchiamo di indossare abiti etici e scarpe eco-fashion, ma sappiamo davvero cosa indossiamo? A far tornare alla ribalta questa domanda, il dossier “Dirty Laundry” di Greenpeace che ha lanciato in questi giorni la nuova campagna internazionale DETOX e il rispettivo video prodotto dalla società Godmother Films, con la regia di Zoe D'Amaro e Marco della Coletta per denunciare l’inquinamento dei fiumi cinesi causato dagli scarichi tossici dell'industria tessile in Cina. Industria alimentata da molti dei più importanti marchi di abbigliamento.

A noi la moda piace critica. Cerchiamo di indossare abiti etici e scarpe eco-fashion, ma sappiamo davvero cosa indossiamo? A far tornare alla ribalta questa domanda, il dossier “Dirty Laundry” di Greenpeace che ha lanciato in questi giorni la nuova campagna internazionale DETOX e il rispettivo video prodotto dalla società Godmother Films, con la regia di Zoe D’Amaro e Marco della Coletta per denunciare l’inquinamento dei fiumi cinesi causato dagli scarichi tossici dell’industria tessile in Cina. Industria alimentata da molti dei più importanti marchi di abbigliamento.

Le ricerche effettuate tra il 2001 e il 2011 da Greenpeace – che ha raccolto ed esaminato campioni di acqua presso gli scarichi di due complessi industriali cinesi, lo Youngor Textile Complex e il Well Dyeing Factory Limited, localizzati rispettivamente sul delta del fiume Azzurro e del fiume delle Perle (il terzo più lungo della Cina) – hanno rivelato il legame commerciale fra i proprietari dei due complessi e alcune marche sportive nazionali ed internazionali, tra cui Abercrombie & Fitch, Adidas, Bauer Hockey, Calvin Klein, Converse,Cortefiel, H&M, Lacoste, Li Ning, Meters/bonwe, Nike, Phillips-Van Heusen Corporation (PVH Corp), Puma e Youngor.

Anche se le analisi, non hanno rilevato livelli molto alti di inquinanti, i risultati dimostrano un inquinamento diffuso di questi fiumi da alchilfenoli e composti perfluorurati, sostanze usate in alcune fasi della produzione tessile e considerate pericolose perché alterano il sistema ormonale dell’uomo e agiscono anche a concentrazioni molto basse. I livelli più significativi di nonilfenolo (del gruppo degli alchilfenoli) e dell’acido perfluoroottanoico (un composto perfluorurato) sono stati trovati in un campione dello Youngor Textile Complex (dove è oltretutto presente un moderno sistema di depurazione delle acque).

Ma le analisi di laboratorio hanno inoltre rilevato anche altri tipi di contaminanti pericolosi per l’ecosistema e per la salute umana fra cui metalli pesanti, come cromo, rame e nichel, trovati in alte concentrazioni nell’impianto Well Dyeing Factory Limited, e composti organici volatili quali il dicloroetano, il tricloroetano (cloroformio) e il tetracloroetano.

Il realtà le ricerche condotte da Greenpeace sono indicative di un problema molto più vasto. Infatti essendo la catena di fornitura dell’industria tessile molto complessa, perché fatta di tanti livelli e attori, le multinazionali possono siglare contratti direttamente con i fornitori locali, oppure acquistare indirettamente materie prime attraverso agenti intermediari o importatori. Dunque queste aziende multinazionali, che portavano avanti per la maggior parte, soprattutto Nike, Adidas e Puma, campagne legate alla sostenibilità ambientale, nonostante siano connesse direttamente agli impianti produttivi dove Greenpeace ha effettuato i campionamenti, e che abbiano identificato una lista di composti prioritari pericolosi da limitare solo nei loro prodotti finiti, nella pratica non si preoccupano affatto di come vengono realizzati i loro prodotti a livello locale, anche se questo dovesse comportare il rilascio in acqua di sostanze pericolose da parte dei fornitori.

Secondo Greenpeace dunque queste grandi aziende, che acquistano prodotti cinesi, hanno l’obbligo di assumersi la responsabilità degli scarichi tossici rilasciati localmente, e l’unica soluzione al problema è quella di intervenire direttamente con una “chiara politica chimica” sui processi produttivi per eliminare gradualmente l’uso delle sostanze pericolose attraverso monitoraggi periodici, come già avviene in alcuni paesi occidentali (ad esempio nel Nord Carolina o in Germania, dove nell’industria tessile queste sostanze altamente inquinanti e pericolose sono state sostituite con altre più sicure ma con le stesse performance). Sono le grandi marche dunque che devono impegnarsi, attraverso le loro risorse economiche, a trovare queste alternative, proprio come afferma Vittoria Polidori responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace “Dietro questi complessi industriali cinesi ci sono grandi marche dello sport nazionali ma soprattutto internazionali che, con il loro potere economico, avrebbero la forza di influenzare l’intera catena di produzione e il mercato, quali Nike e Adidas, che dovrebbero prendere il timone e guidare l’intero settore verso una chimica pulita”.

Se ciò non accadrà, non solo aumenteranno i danni causati all’ecosistema, ma aumenteranno sempre di più negli anni le malattie quali dermatiti o allergie causate dal contatto con questi vestiti che poi noi indossiamo. Infatti le sostanze tossiche utilizzate dall’industria tessile arrivano nelle nostre case all’interno dei capi di abbigliamento, causando sempre più malattie all’epidermide anche molto gravi.

Ed è questo che vuole denunciare la giornalista Rita dalla Rosa con il suo libro inchiesta “Vestiti che fanno male” edito da Terre di Mezzo, una guida pratica per muoversi tra coloranti, candeggianti, ammorbidenti e antimuffa responsabili di irritazioni e allergie, proprio per aiutarci ad evitare danni alla propria salute, e al nostro Pianeta.

E allora uniamoci nel nostro piccolo agli attivisti di Greenpeace ed invece di indossare vestiti, t-shirt e scarpe di queste grandi multinazionali nonostante portavano avanti campagne a favore della sostenibilità, ma alle quali in fondo interessa poco su ciò che producono, non sarebbe meglio sfoggiare non solo originali ma anche naturali abiti e accessori prodotti con materiali riciclati o ancor meglio Made in Italy e rigorosamente eco-fashion?

Il rapporto “Dirty Laundry” è scaricabile direttamente dal sito di Greenpeace Italia.

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