Carbon Footprint nelle etichette dei prodotti: i supermercati Tesco fanno marcia indietro

La Tesco, la più grande catena di supermercati inglese, ci ha creduto e a partire dal 2007 si è impegnata nell’etichettatura dell’impronta di carbonio di circa 500 prodotti. Ma ora fa marcia indietro: il suo sforzo si è rivelato troppo costoso e poco vantaggioso, dal momento che i consumatori hanno mostrato serie difficoltà nel comprendere la finalità dell’etichetta. Lo rivela Rebecca Fay, direttore marketing della Carbon Neutral Company.

Quantificare e comunicare l’impronta climatica di un prodotto e far crescere la consapevolezza dei consumatori sulle conseguenze delle proprie scelte quotidiane. È a questo a cui mira la carbon footprint di prodotto (PCF), un metodo sempre più diffuso per misurare quantitativamente gli effetti prodotti sul clima da parte dei gas serra generati da un prodotto, sia esso un bene o un servizio. La Tesco, la più grande catena di supermercati inglese, ci ha creduto e a partire dal 2007 si è impegnata nell’etichettatura dell’impronta di carbonio di circa 500 prodotti. Ma ora fa marcia indietro: il suo sforzo si è rivelato troppo costoso e poco vantaggioso, dal momento che i consumatori hanno mostrato serie difficoltà nel comprendere la finalità dell’etichetta. Lo rivela Rebecca Fay, direttore marketing della Carbon Neutral Company.

E potrebbe trattarsi di una scelta che, secondo qualcuno, sancirà definitivamente il fallimento di questo tipo di etichettatura, anche se, almeno per ora, la catena nega di avervi rinunciato definitivamente, ma parla solo di “ri-valutazione” di ciò che funziona davvero o no per i propri clienti. Se però è vero che i consumatori non capiscono le carbon footprint e che, anche quando la capiscono, non vi è alcuna garanzia che agiranno di conseguenza, come dimostra l’esperienza Tesco, è inevitabile che l’intero sistema di etichettatura basato sul carbonio, venga messo in discussione: potrebbe non essere sempre il migliore riferimento per gli impatti ambientali legati a tutte le categorie di prodotto.

Non potrebbe invece trattarsi di uno squallido tentativo di fare a “scarica barili” da parte delle aziende? Leo Hickman, giornalista ambientale del The Guardian, lo aveva detto sin da quando le prime etichette di carbonio cominciarono ad apparire. Conoscere l’impronta della sua carta igienica lo avrebbe portato a farne a meno? E, cosa più importante, le Aziende non stavano forse “passando la patata bollente ai consumatori”? Per Hickman i limiti dell’etichettatura erano evidenti: si trattava di chiedere alle persone di fare “scelte responsabili” senza però prendere seri provvedimenti per migliorare tutta la filiera a monte.

La questione del footprint di prodotto è particolarmente attuale in Europa: nello studio Sustainable materials management and sustainable production and consumption”, pubblicato nel 2010, il Consiglio Europeo aveva invitato la Commissione a sviluppare una metodologia comune per la valutazione quantitativa degli impatti ambientali dei prodotti, lungo l’intero ciclo di vita, al fine di sostenere la valutazione e l’etichettatura dei prodotti. Una footprint ambientale, che farà parte della revisione del Piano d’Azione sul consumo e produzione sostenibili, previsto proprio per il 2012.

Il clima di ottimismo nei confronti della lotta al cambiamento climatico, molto forte nel 2007, è tramontato, la preparazione dell’opinione pubblica sulle tematiche ambientali è sempre più scarsa, la crisi economica attuale impedisce lo sviluppo di un consumo più critico. Eppure, diventa sempre più importante agire in direzione dell’eco-sostenibilità. Proprio per questo le Aziende e i Governi, oltre alla loro impronta di carbonio, dovrebbero fare attenzione al loro modo di concepire l’intera filiera, alla loro impostazione più generale, apportando finalmente quella vera trasformazione necessaria per una sostenibilità duratura.

Roberta Ragni

Foto: Flickr/gwire

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