Pfas nelle acque del Veneto: chi inquina non paga?

Pfas nelle acque del Veneto: chi paga per questo inquinamento?

Pfas in Veneto, la storia infinita. Migliaia sarebbero i cittadini veneti che sono stati esposti ad acqua potabile contenente Pfas (sostanze perfluoroalchiliche), ma chi paga per questo inquinamento così profondo?

È la domanda che pone Greenpeace nel nuovo rapporto “Emergenza Pfas in Veneto, chi inquina paga?”, elaborato dall’Istituto di ricerca indipendente olandese SOMO in collaborazione con Merian Research (Berlino), in cui si vuole tenta di gettare un luce sulla Miteni, l’azienda chimica di Trissino ritenuta la fonte principale dell’inquinamento da Pfas.

L’inquinamento da Pfas tocca un’area piuttosto vasta del Veneto compresa tra le province di Vicenza, Verona e Padova.

Dopo aver presentato un’istanza pubblica di accesso agli atti alla Regione Veneto, Greenpeace ha reso noto un grafico interattivo con una sintesi dei dati ufficiali del 2016 ottenuti nei mesi scorsi da cinque ULSS – 6 Euganea (ex ULSS 17), 8 Berica (ex ULSS 5 e 6) e 9 Scaligera (ex ULSS 20 e 21) – e relativi ad oltre 90 comuni veneti.

Per ogni comune è indicata la concentrazione minima, media e massima di Pfas nell’acqua potabile oltre al confronto con i livelli consentiti in Svezia e Stati Uniti.

Qui la lista dei Comuni che superano i livelli di sicurezza americani.

La posizione della Miteni

greenpeace veneto

Ad oggi sono indagati dalla Procura di Vicenza per reati ambientali alcuni dirigenti della presente e della passata gestione di Miteni. Nel caso venissero confermate le ipotesi di reato a carico di Miteni, l’azienda dovrebbe coprire i costi delle bonifiche e altre richieste di risarcimento.

Ma, cosa quasi scontata, dall’indagine di SOMO emerge che Miteni ha chiuso i suoi bilanci in passivo negli ultimi 10 anni e che il collegio sindacale dell’azienda, nell’ultimo bilancio, ha invitato la proprietà a una “ricapitalizzazione per non compromettere la continuità aziendale”.

Dal 2009, Miteni fa parte del gruppo ICIG a sua volta controllato dalla holding lussemburghese ICI SE (International Chemical Investors), che, a fine 2016, aveva in cassa più di 238 milioni di euro. Sempre guardando al bilancio 2016, le risorse finanziarie con cui invece Miteni potrebbe far fronte ad eventuali risarcimenti erano pari ad appena 6,5 milioni di euro. Una cifra modesta se paragonata con i soli costi per il rifacimento degli acquedotti che la Regione Veneto stima in 200 milioni di euro.

I dati pubblicati oggi indicano che Miteni versa in una situazione finanziaria estremamente difficile. La domanda che si fanno i cittadini e che si è fatta anche Greenpeace è: chi paga?”, commenta Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace. “Pare escluso che Miteni, se condannata, possa risanare questo territorio e risarcire i suoi cittadini per i danni sanitari e ambientali di un inquinamento che coinvolge più di 350 mila persone”.

Eppure, l’ordinamento giuridico italiano così come quello europeo vorrebbe che “chi inquina paga”.

L’attuale proprietà Miteni si ne è lavata le mani sostenendo a più riprese di non essere responsabile dell’inquinamento (lo ha ricondotto, anzi, alle precedenti gestioni), e di non essere a conoscenza dei gravi rischi ambientali connessi allo stabilimento di Trissino prima di procedere all’acquisto. Nonostante ciò, la vendita della società da parte di Mitsubishi ad ICIG per solo 1 euro, a fronte di un valore superiore ai 33 milioni, e la continuità di cariche di Brian Anthony McGlynn nelle due gestioni, parecchi dubbi li pone.

Inoltre nel bilancio 2009, già durante la gestione ICIG, Miteni fa riferimento all’implementazione di una barriera idraulica, attiva già dal 2005, “secondo i programmi concordati con le autorità locali“. La barriera idraulica è una delle tecniche di bonifica più comuni in siti inquinati dove la contaminazione può interessare direttamente le falde acquifere. Per quale ragione Miteni avrebbe realizzato nel 2005 un’opera così importante? Eppure varie autorità locali sostengono di essere state informate del “rischio PFAS” solo nel 2013.

Sulla presenza di Pfas in Veneto puoi leggere anche:

Intanto, Greenpeace ha chiesto a Zaia e alla Regione Veneto di “bloccare tutte le fonti di inquinamento da PFAS“, sostanze chimiche pericolose per l’ambiente e per l’uomo, e di adottare livelli di sicurezza di PFAS nell’acqua potabile in linea con i valori più restrittivi vigenti in altri Paesi.

Germana Carillo

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