Antico Grano Cappelli: è davvero a rischio la libera coltivazione?

Il grano Senatore Cappelli è una varietà antica di grano duro riscoperta di recente in Italia e negli ultimi anni riseminata da molti agricoltori, soprattutto biologici, oltre che apprezzata da tanti consumatori come alternativa nostrana al canadese Kamut®. Ora però, stando agli appelli di diverse associazioni, questa coltivazione rischia di scomparire nuovamente a causa della concessione in licenza esclusiva dei diritti di moltiplicazione e commercializzazione che sono visti come monopolio. Ma è veramente così? Come siamo arrivati a questa situazione? Proviamo a ripercorrere le tappe e a ricostruire nel modo più obiettivo possibile, la vicenda.

Il grano Senatore Cappelli è una varietà antica di grano duro riscoperta di recente in Italia e negli ultimi anni riseminata da molti agricoltori, soprattutto biologici, oltre che apprezzata da tanti consumatori come alternativa nostrana al canadese Kamut®. Ora però, stando agli appelli di diverse associazioni, questa coltivazione rischia di scomparire nuovamente a causa della concessione in licenza esclusiva dei diritti di moltiplicazione e commercializzazione che sono visti come monopolio. Ma è veramente così? Come siamo arrivati a questa situazione? Proviamo a ripercorrere le tappe e a ricostruire nel modo più obiettivo possibile la vicenda.

Il grano Senatore Cappelli è iscritto nel Registro delle varietà di specie agrarie (Codice SIAN 1297) tenuto presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e i diritti patrimoniali derivanti dallo sfruttamento della Varietà sono riconosciuti al CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), ente pubblico vigilato dallo stesso Ministero.

L’ente, che ha promosso la riscoperta di questo grano antico, ha concesso la licenza esclusiva di moltiplicazione e commercializzazione ad una ditta sementiera italiana, la Società Italiana Sementi, per 15 anni, tramite bando pubblico. E gli agricoltori biologici insorgono, sostenendo la creazione di un monopolio e assimilando il caso a quello del Kamut®, marchio di grano duro Khorosan registrato dalla ditta canadese Kamut International, divenuto ormai un business mondiale e venduto a prezzi molto elevati.

Il Senatore Cappelli però, a differenza del Kamut®, è una vera e propria varietà di grano duro e non un marchio registrato, e ultimamente ha attirato in modo particolare l’attenzione degli agricoltori biologici, che ne hanno riscontrato caratteristiche tali da adattarsi molto bene alle loro metodiche e c’è chi dice che sia l’unico seme di grano a poter essere usato in biologico.

La Storia del Senatore Cappelli

Il grano Senatore Cappelli è una varietà di grano duro molto antica, risalente al 1915, ottenuta dal genetista Nazareno Strampelli presso il Centro di Ricerca per la Cerealicoltura di Foggia, tramite selezione genealogica della popolazione nord-africana Jenah Rhetifah. Nei decenni successivi al dopoguerra la sua coltivazione fu quasi abbandonata, ma riscoperta negli ultimi 10-15 anni soprattutto in agricoltura biologica, in quanto sembra che il seme si adatti molto bene a questa tecnica.

Fino al 2016 gli agricoltori interessati al grano Senatore Cappelli acquistavano il seme presso due ditte sementiere italiane che si occupavano della sua moltiplicazione, quindi lo coltivavano e il grano ottenuto veniva o venduto come prodotto a società di trasformazione (es. pastifici) o trasformato in altri prodotti “in casa”.

Il bando del CREA per la moltiplicazione e la commercializzazione

A luglio 2016 il CREA, con un bando pubblico, ha affidato invece la licenza esclusiva per 15 anni ad un’unica ditta, la Società Italiana Sementi (SIS) che ha quindi ora i diritti di moltiplicazione e commercializzazione del seme, che vende agli stessi agricoltori. Questi però accusano la SIS di aver creato un monopolio rendendolo di fatto il seme non disponibile a tutti. Secondo alcuni, in particolare, la SIS venderebbe il seme solo a chi si impegna a rivendere a lei l’intera produzione. Sulla vicenda c’è stata anche un’interrogazione parlamentare rivolta al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali Maurizio Martina, insinuando pratiche non conformi al bando messe in campo dalla ditta vincitrice.

Sul bando, che abbiamo potuto visionare, si legge: ”Invito aperto ad Aziende Sementiere per formulare manifestazioni di interesse preliminari per l’acquisizione esclusiva dei diritti di moltiplicazione e commercializzazione della nuova cultivar (di seguito Varietà) di grano duro denominata ‘Cappelli'”.

Le proteste degli agricoltori

Dunque moltiplicazione e commercializzazione in licenza esclusiva. Per alcuni questo implica:

1) Creazione di un monopolio

2) Rischi per la biodiversità

3) Creazione di un’unica filiera in capo alla SIS, con ripercussioni per tutte le altre già strutturate

Ma è vero che l’affidamento della licenza, in tali modalità, può avere queste conseguenze? È vero che in questo modo il seme del Cappelli rischia di scomparire, o che comunque questa operazione interferirà pesantemente sulla biodiversità, complicando ulteriormente la vita agli agricoltori biologici?

Per avere una visione più chiara abbiamo intervistato Francesco Torriani, Presidente Consorzio Marche Biologiche, Giovanni Girolomoni, Presidente Cooperativa Agricola Girolomoni e Roberto Carchia, Vicepresidente Associazione Granosalus, che si sentono minacciati da questa operazione e già lamentano dei grossi problemi avuti nell’annata 2017.

Accanto a loro abbiamo ascoltato anche Mauro Tonello, Vicepresidente Coldiretti e Presidente Società Italiana Sementi (SIS), che si è aggiudicata il bando e che sottolinea la correttezza delle sue azioni, contraddicendo diverse presunte verità.

Il contratto tra agricoltori e SIS è obbligatorio?

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Il bando, come detto, è vinto dalla Società Italiana Sementi, che da luglio 2016 inizia a comprare il Senatore Cappelli dal CREA (con royalties pari a 18 euro a quintale) e a moltiplicarlo presso le sue sedi, per poi venderlo agli agricoltori interessati alla sua semina.

La ditta propone poi dei contratti agli agricoltori con i quali questi si impegnano a consegnare tutta la produzione certificata biologica alla SIS che a sua volta si impegna a pagare la produzione che rispetti alcuni parametri, tra cui peso, umidità e purezza.

“I diritti di esclusiva che la SIS si è aggiudicata, tuttavia, non comprendevano la possibilità che ai produttori sì imponesse il vincolo della consegna di tutta quanta la granella prodotta, impedendo la libertà nelle relazioni con l’industria di trasformazione, né tantomeno il vincolo relativo all’assistenza tecnica che obbliga i produttori a rivolgersi ai consorzi agrari di competenza” ha tuonato in Parlamento il deputato Antonio Placido nel corso dell’interrogazione rivolta a Martina. Quindi il contratto è vincolante?

Agricoltori e SIS sono in realtà molto divisi sulle tempistiche e sulle modalità di tali contratti: quando vengono proposti? È possibile non firmarli e usare la produzione nella propria filiera, magari in un pastificio artigianale o di fiducia?

“La nostra denuncia è un po’ particolare – precisa subito Torriani – Il CREA ha fatto un bando per cercare una ditta sementiera per la moltiplicazione del seme. La normativa, anche se può avere degli aspetti discutibili, su questo parla chiaro. La ditta ha risposto al bando, l’ha vinto, e ha avuto il diritto esclusivo di moltiplicazione. Fin qui, formalmente, c’è poco da contestare. Si potrebbe discutere al massimo sull’esclusività e sul fatto che sia per 15 anni, effettivamente tanti (magari sarebbero stati meglio 10). Ma noi agricoltori biologici non contestiamo il fatto che una ditta sementiera debba moltiplicare il seme. Sappiamo che la moltiplicazione del seme è un’attività specifica, con delle professionalità”.

“Il problema è un altro – continua – la ditta sementiera non si limita solo a gestire l’esclusiva della moltiplicazione del seme, ma vuole entrare anche nella filiera commerciale. Ovvero la ditta vuole gestire sia il seme destinato alla moltiplicazione del seme, sia quello destinato alla trasformazione. Quindi l’agricoltore, che semina del seme destinato alla trasformazione, è di fatto costretto a rivendere la produzione che ha ottenuto alla ditta sementiera e a ricomprarla se vuole farne pasta o pane. Questo prima non era mai accaduto. Lo scandalo è proprio questo. La ditta sementiera fa una forzatura. È come se ricattasse il produttore agricolo”.

“Lo stesso CREA ci ha comunicato che la ditta non può obbligare l’azienda agricola a restituirle il seme destinato alla trasformazione, ma solo quello destinato alla moltiplicazione. Avendo invece il coltello dalla parte del manico, forza anche questa seconda fase, mettendo il produttore in una situazione difficile”.

Quindi lo stesso CREA chiarisce che la “commercializzazione” citata nel suo bando si riferisce solo alla prima fase. Eppure, secondo gli agricoltori, la SIS si sta riferendo a tutta la vita del seme, dalla moltiplicazione alla trasformazione.

“Stanno mettendo in ginocchio le aziende agricole organizzate in filiere che non si limitavano solo a coltivare il grano Cappelli per produrre seme, ma anche per trasformarlo in prodotti come la pasta. Queste realtà ora di fatto non hanno più il Cappelli perché lo devono restituire alla SIS, la quale poi utilizza quel seme per la sua filiera commerciale, non rendendolo più disponibile per quei produttori che avevano già costruito una filiera e che in questi anni l’avevano promosso e fatto conoscere. Tutto ciò è scorretto.

Obbligo che la SIS nega fortemente.

“Alcune associazioni sostengono che noi avremmo preso questo grano, dato tutto a quelli della Coldiretti perché io ne sono il Vicepresidente nazionale, e che poi avremmo obbligato gli agricoltori a sottoscrivere un contratto con noi, pena la non concessione del seme – replica Tonelli – Premesso che avrei potuto anche farlo, faccio presente che gli agricoltori hanno seminato ormai 3 mesi fa mentre stanno ricevendo solo ora queste proposte di contratto. Se li avessi voluti obbligare, glielo avrei fatto firmare prima di dare loro il seme, e sarebbe stato anche facile”.

“Qualcuno dice anche che così scompare la possibilità di coltivare il Senatore Cappelli, “libero” dalla SIS. Assolutamente no: gli agricoltori possono andare a comprare il seme dove lo compravano prima, da coloro che sostengono di avere il loro Senatore Cappelli. È chiaro però che nel tempo io tenterò di difendermi mostrando come il “vecchio” Senatore Cappelli viene alto 140-180 centimetri, mentre in giro c’è altro Senatore Cappelli magari alto 100 centimetri, con le liste bianche invece che nere, frutto magari di procedure non corrette. Il vero Cappelli si può seminare anche con 130 chili, invece dei 200 che facevano utilizzare fino a ieri”.

Ma così fosse perché gli agricoltori sostengono di non averlo più? Il Consorzio Marche Biologico ci dice che nel 2017 gli agricoltori non hanno proprio seminato il Cappelli.

“Più di 100 agricoltori coltivavano grano Cappelli, ma adesso non lo fanno più – conferma Girolomoni – Il danno, se è economico per le aziende che non hanno più la possibilità del prodotto pasta da vendere, conseguentemente è un danno anche per gli agricoltori che non lo possono più coltivare. Poi nel medio termine bisognerà vedere come si sviluppa la vicenda”.

Una situazione che ha del paradossale perché, secondo la SIS, il prezzo con cui questa compra la produzione all’agricoltore è molto più alto di prima.

“Prima il seme veniva pagato agli agricoltori tra i 35 e i 45 euro a quintale biologico – ci spiega Tonello – Questo è un grano che, coltivato al Centro Sud, inclusa la Sardegna, ha una produzione che va dai 15 ai 20 quintali come biologico. Quindi il prezzo massimo che veniva pagato era di 900 euro. Fare il Senatore Cappelli costa 1100 euro affinché sia buono. Quindi si faceva coltivare il grano con una filiera seria, del biologico, permettendo all’agricoltore di perdere dei soldi. Mi sembra molto discutibile”.

“I trasformatori vendevano la pasta del Senatore Cappelli a 5-6 euro al chilogrammo. Ma se si vende la pasta a questo prezzo, come si può pagare il grano addirittura al di sotto dei costi di produzione? Secondo noi la filiera dovrebbe dividere più o meno equamente i guadagni del Senatore Cappelli, rispettando anche il consumatore. Quindi, per prima cosa, abbiamo iniziato a pagare l’agricoltore almeno 80 euro a quintale.

“Ma anche il trasformatore deve guadagnare da tutto questo. I nostri calcoli hanno dimostrato che vendendo la pasta a 5-6 euro poteva pagare il grano anche 200 euro, non 80. Ma facendo così si rischia di fare una cosa simile a quella successa al Kamut® (che infatti costa 300 euro). Per questo abbiamo pensato che fosse giusto che anche il prezzo al consumatore fosse calmierato, pur considerando che la pasta del Senatore Cappelli non può certo costare 50 centesimi. Anche il consumatore infatti deve guadagnare da questo patrimonio italiano”.

Quindi, stando alle parole della SIS, invece, tutto sembra andare nella più totale trasparenza. Anzi, con guadagni maggiori anche per gli stessi agricoltori che oggi insorgono.

Il Cappelli come il Kamut®?

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Il Kamut® non è una varietà di grano, è un nome commerciale, un marchio registrato, che usa a fini pubblicitari il fatto di essere un grano antico e le sue presunte qualità nutrizionali. A fronte di questo, la Kamut International lo offre a prezzi molto elevati, sfruttando il gradimento che sta riscontrando tra i consumatori.

“Il caso Cappelli è molto diverso dal Kamut® – precisa però Girolomoni – perché il Kamut è stata un’operazione di comunicazione tramite un marchio registrato che ha permesso di valorizzare una filiera del Nord America. Un progetto del genere non ci è mai interessato. Qui la situazione è diversa: il Senatore Cappelli non è un marchio commerciale, è una varietà di grano duro registrata. Esiste un bando per acquisirne i diritti di semina e il caso è nazionale. Non è una società privata che ha deciso di promuovere un proprio prodotto”.

“Il Kamut® è una varietà di grano comunemente conosciuta come grano khorasan, che non ha nemmeno l’obbligatorietà di iscriversi al registro. Ce ne sono altre di varietà di questo grano, una l’abbiamo anche noi. La chiamiamo diversamente ma siamo liberi di farlo. Invece il grano duro Cappelli è una varietà iscritta al registro nazionale, di proprietà del CREA di Foggia, un ente pubblico, che ha lanciato un bando vinto regolarmente da una società. Quello che non è stato possibile quest’anno è stato seminare. Speriamo che nel 2018 qualcosa cambi, che ci sia quantità sufficiente per tutti gli agricoltori, e non solo per quelli che si inseriscono nella filiera della SIS”.

Il Kamut® ha però delle analogie con il Senatore Cappelli: sono entrambi grani antichi, entrambi vengono “venduti” come più digeribili, meno trattati, cose che incontrano il favore dei consumatori in cerca di cibi sani.

Anche sul Senatore Cappelli la stessa SIS ci dice che gli studi scientifici a riguardo non hanno mai veramente dimostrato queste sue presunte qualità e che per questo si è fatta promotrice di uno studio affidato al Policlinico Gemelli in corso sulla popolazione sensibile al glutine, supportata economicamente da alcuni acquirenti delle sementi.

Il grano Senatore Cappelli e l’agricoltura biologica: a rischio la biodiversità?

Il grano Senatore Cappelli è una varietà di grano che sembra adattarsi particolarmente bene all’agricoltura biologica: per questo sono gli agricoltori biologici a sentirsi “derubati” del seme, ammesso che questo sia vero. Ma nonostante facciano fronte comune in questa battaglia, non tutti concordano che il presunto monopolio metta in pericolo la biodiversità.

“Il grano Cappelli è una varietà molto antica, risalente al 1915, la prima linea pura di grano duro che il mondo abbia mai avuto – ci spiega Carchia – Questa varietà, per le sue caratteristiche genetiche, è l’unica che si adatta all’agricoltura biologica. Il Cappelli ha un alto grado di competitività, e le radici riescono ad esplorare il terreno per trovare i nutrienti necessari alla propria crescita”.

“La questione grano Cappelli è molto delicata per gli agricoltori biologici – fa eco Torriani – perché sono stati loro a rimettere in coltivazione questa varietà di frumento duro, che era stata creata nel dopoguerra ma poi abbandonata in quanto, come tutte le varietà antiche, aveva caratteristiche che non si adattavano ai modelli di agricoltura tradizionale, che fa ampio uso di mezzi tecnici chimici e che spinge sulla produzione”.

“Abbiamo scoperto il grano Senatore Cappelli più di 10 anni fa – conferma anche Girolomoni – e abbiamo iniziato a coltivarlo in biologico, notando che ha delle caratteristiche agronomiche molto interessanti per gli agricoltori bio, in quanto si adatta bene ai terreni marginali. Come Cooperativa noi produciamo pasta e abbiamo visto delle caratteristiche difficilmente riscontrabili in altri cereali e grani”.

Sulla biodiversità però molti dubbi e opinioni differenti.

“Non credo che questa situazione sia un pericolo in generale per la biodiversità – afferma però Girolomoni – Non è il recupero della singola varietà che mette in pericolo la biodiversità. Questa è assicurata dal metodo biologico, non il recupero di antiche varietà. È importante comunque mantenerle, ma non è a rischio la biodiversità. Il grano non sparirà dalla coltivazione”.

“Tuttavia la situazione costituisce un problema agronomico, che può influire sulla biodiversità – aggiunge – Ma non tanto per la presunta sparizione della varietà, che verrà comunque mantenuta. Il problema è per le aziende agricole, perché i grani antichi si adattano particolarmente bene al metodo biologico. Quindi avere un’opportunità in meno di coltivare un grano al quale erano abituati da tanti anni è in un certo senso una perdita di biodiversità nei sistemi in cui il grano era inserito. Favorire una o poche filiere rispetto ad altre è un danno agronomico e quindi di biodiversità”.

Più deciso invece Carchia, che tuona: “Il seme di ogni specie vegetale, contrariamente a quanto si pensi, si adatta al terreno e alle condizioni climatiche dove cresce. Quando lo vado a replicare in una zona umida, malsana, genererà un nuovo ceppo. Quindi rischiamo anche di perdere le nostre radici e le nostre origini. Questo minaccia la biodiversità: si rischia di fare scomparire un seme nato in territorio con determinate caratteristiche. Replicato altrove si snatura nel vero senso della parola”.

“Per noi è un grandissimo danno, per noi e per il biologico, perché in questo modo non avremo altra varietà che possa sostituirla. Il danno è sicuramente economico ma anche di biodiversità. Non potendola più coltivare la varietà è destinata a scomparire”.

Una filiera o molte filiere?

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Se dunque il problema puramente ambientale non è chiarissimo, e comunque i presunti danni sembrano ancora da dimostrare, resta il discorso economico. Gli agricoltori biologici chiedono di poter usare le loro filiere e accusano la SIS di voler usare solo la sua.

“Il CREA, affidando questa nuova varietà ad una ditta sementiera, voleva favorire la diffusione del seme, ma la ditta non lo rende disponibile a tutti gli agricoltori, ma solo alla filiera commerciale che vuole costruire” ribadisce Torriani.

“Dal punto di vista normativo, essendo il seme Cappelli inserito in filiere già create, la ditta sementiera non ha la privativa, ovvero non può obbligare i produttori a consegnare anche il seme destinato alla trasformazione. Ma nei fatti è avvenuto questo. Nel 2017 i produttori biologici marchigiani non hanno avuto il seme da seminare. Mi auguro che nel 2018 le cose cambino”.

“Noi abbiamo fatto presente al CREA questa situazione, e sappiamo che questo si sta attivando affinché la ditta metta in atto un sistema più trasparente, che permetta alle aziende agricole di prenotare il seme per tempo, per evitare che si crei questo fenomeno speculativo ingiusto. Siamo comunque molto preoccupati perché il meccanismo che il CREA pretende dalla ditta sementiera potrebbe non essere rispettato ponendo la motivazione per la quale il seme non è sufficiente per tutti”.

“Poiché il Cappelli stava diventando sempre più importante, il CREA ha voluto rafforzare la filiera, rendendola più strutturata. Per questo ha riassegnato il diritto di moltiplicazione ad una ditta che si è aggiudicata l’incarico – continua Torriani – Però l’esclusiva rischia di creare un monopolio, e per giunta per 15 anni. E questo poteva essere gestito diversamente. Ma soprattutto la ditta ha avuto l’incarico di moltiplicare il seme in maniera esclusiva, mentre si è creato un meccanismo con il quale la ditta non vuole limitarsi a questo, ma anche alla commercializzazione.

La SIS, dal canto suo, ribadisce che il contratto non è obbligatorio e che comunque gli agricoltori possono comprare il grano Senatore Cappelli anche altrove, anche se ovviamente non è quello del CREA.

Sottolinea inoltre come la filiera in fase di costruzione sia totalmente trasparente e più equa dal punto di vista economico, ribadendo la totale estraneità a presunte manipolazioni genetiche (OGM) e ricordando anche una precedente iniziativa con la quale ad un aumento di superficie coltivata a Cappelli veniva incentivata anche la semina del seme di facelia (pianta mellifera molto nutriente per le api che sono attratte dal suo polline, N.d.R.), che fiorisce in un periodo dove non fioriscono altri fiori in modo da aiutare il mondo degli apicoltori e delle api.

La libertà del seme e le richieste degli agricoltori

Filiera equa e rispettosa dell’ambiente, ma non quella a cui erano abituati gli agricoltori, forse è proprio questo il punto. Libertà del seme e di semina? Come nel caso del Testo Unico Forestale, oggetto di una nostra precedente inchiesta, è giusto forse chiedersi se veramente è possibile lasciare “tutto alla natura” in un mondo così (forse troppo) antropizzato (la stessa SIS riferisce un incontro sul tema con i tecnici di SlowFood in programma presso le sue sedi). Ma se la risposta fosse sì, sarebbero comunque sbagliate e ingiuste anche le comuni pratiche di messa in purezza dei semi, che hanno portato alla varietà di prodotti di cui disponiamo, nel bene e nel male.

Il quadro che ne esce è di grande caos: gli agricoltori biologici che usavano il Senatore Cappelli riferiscono di non coltivarlo più, o comunque molto meno di prima, nonostante le rassicurazioni della SIS e il prezzo a cui questa afferma di pagare il grano.

“I produttori di grano bio hanno fatto esplicita richiesta di poter seminare alla SIS nella precedente annata agraria e tale possibilità ci è stata negata. In questo modo il seme non è stato seminato – sostiene Carchia – La SIS ha portato via il nostro seme e lo ha monopolizzato” […] “Ci sono atti giuridici che stiamo portando avanti perché il Cappelli torni alla situazione di prima, e perché magari sia proprio il CREA a divulgarlo e a portarlo avanti. Il CREA di Foggia ha tutte le strutture e le superfici necessarie per propagare il seme, e anche per commercializzarlo. Sembra assurdo che debba avvalersi di un’azienda del Nord”.

“Chiediamo che, se la ditta che si è aggiudicata il bando non è in grado di produrre seme certificato biologico, le venga revocato l’incarico o comunque che le venga revocata l’esclusiva. In questa fase noi stiamo cercando di trovare una soluzione, ma abbiamo voluto suonare il campanello di allarme, perché nel 2017 molte realtà che prima seminavano anche mille, duemila o tremila ettari hanno seminato zero” dichiara Torriani.

Le motivazioni appaiono però poco chiare, perché, se da un lato i contratti di rivendita esistono, dall’altro non sembrano vincolanti. Inoltre non esiste solo il Senatore Cappelli SIS (ovvero CREA). La SIS riferisce poi di aver fortemente aumentato la superficie di coltivazione passando da un migliaio di ettari ai 5000 del 2018, e di aver diversificato i terreni, seminando in tutta Italia, in favore della biodiversità.

Che a rischio, più che la biodiversità o l’agricoltura biologica stessa, ci sia un sistema di filiere già “ordinato” e che ora non riesca più ad inserirsi in una realtà differente? La situazione è destinata ad evolversi in poco tempo. La sentenza, dunque, è attesa a breve.

Roberta De Carolis

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