Viaggio nell’apocalisse del cimitero illegale delle nostre navi: disastro ecologico e umano sulle coste del Bangladesh

Paesi di tutto il mondo mandano qui le loro navi per la demolizione, a scapito dell’ambiente e della salute delle popolazioni locali. Viaggio nell'apocalisse di ferro, amianto e ruggine sulle coste del Bangladesh

Visto dall’alto è un ammasso di vecchia ferraglia. Ma quaggiù, nella parte sud orientale del Bangladesh, chilometri e chilometri di spiaggia continuano a essere sepolti da vecchie navi da smantellare. Sono anni, infatti, che gli armatori attratti dal basso costo di smaltimento mandano qui, a Chittagong, la seconda città più grande del Paese asiatico, le loro imbarcazioni dismesse.

Navi da crociera, navi portacontainer, portarinfuse, petroliere. Enormi fantasmi, scheletri immensi e arenati, per alimentare un’industria – quella della demolizione navale – che impiega quasi 30mila lavoratori che, guarda caso, svolgono uno dei lavori più sporchi e pericolosi del mondo.

Leggi anche: Perché c’è un cimitero di gomma in fondo all’Oceano? Ve lo raccontiamo nell’ottava puntata di “LENTI”, il Podcast di GreenMe

E così, la spiaggia lunga 25 chilometri che si estende da Sitakunda a Chittagong, un tempo sabbiosa e incontaminata e bagnata dalle acque del fiume Borgang, che nasce nel Mizoram e sfocia nel Golfo del Bengala, da ex centro di pesca è diventata un mega cantiere a cielo aperto e una zona praticamente morta a causa dei rifiuti chimici scaricati dalle migliaia di barche sfasciate.

Perché Chittagong è diventata un cimitero di navi

Insieme ad Alang in India e a Gadani in Pakistan, le spiagge di Chittagong ospitano la più grande demolizione navale del mondo. Qui le società di demolizione della regione trasportano vecchie navi da ogni parte del pianeta per smantellarle e rivendere rottami metallici. Chi lo fa? Ovviamente lavoratori sottopagati che sezionano questi giganti del mare praticamente a mani nude, con fiamma ossidrica, spranghe e il tutto quasi sempre senza dispositivi di protezione.

Questo per dar vita a un commercio sì redditizio, ma scarsamente regolamentato.

Come vanno a finire, infatti, le navi a inquinare Chittagong? Dopo una durata di vita di 25-30 anni, le imbarcazioni diventano generalmente un peso per i proprietari, mentre gli assicuratori si rifiutano di coprire le spese. Nei paesi occidentali, tutte le vecchie navi devono essere smantellate in cantieri certificati, con tecnologie avanzate e costose. Nel 2014, l’Unione Europea ha per esempio approvato una nuova legislazione che richiede che le imbarcazioni vengano distrutte in cantieri idonei e sorvegliati. Tuttavia, questo requisito può essere eluso se le navi reimmatricolate dopo essere state rivendute. Nella maggior parte dei casi, vengono vendute a broker internazionali, che a loro volta le rivendono a siti di demolizione in Paesi con una legislazione più flessibile. Queste navi spesso contengono materiali tossici, come amianto o combustibili e gas infiammabili, e finiscono sulle coste del Bangladesh, dell’India, della Cina o del Pakistan. Secondo l’ONG Shipbreaking Platform di Bruxelles, questi Paesi rappresentano quasi il 90% dell’intera industria mondiale.

navi bangladesh

@Shipbreaking Platform

Nel 2019, il Bangladesh ha guidato il settore con 234 navi demolite, pari al 42% dell’attività globale, secondo l’ONG. Nello stesso anno, 24 lavoratori del Bangladesh sono morti a causa di incidenti sul lavoro e 34 sono rimasti gravemente feriti nei siti di demolizione. Il gruppo Young Power in Social Action (YPSA), con sede a Chittagong, ritiene che queste cifre ufficiali siano molto al di sotto della realtà, poiché alcuni incidenti non sono stati segnalati.

L’industria della demolizione navale è nata in Bangladesh nel 1974, soprattutto perché il Paese non disponeva di miniere di ferro per soddisfare una grande domanda di acciaio e ferro dovuta all’industrializzazione e alla rapida urbanizzazione. È stata riconosciuta come industria organizzata solo nel 2006. Ogni tonnellata di vecchie navi smantellate può portare un profitto di 25 dollari ai proprietari, mentre i lavoratori guadagnano in media solo 3 dollari al giorno, svolgendo lavori estremamente pericolosi. Qualsiasi cosa sulle barche, inclusi dadi, bulloni, lampadine e scialuppe di salvataggio, può essere rivenduta nei mercati locali. Secondo gli analisti, mentre il fatturato annuo del settore è di quasi 2 miliardi di dollari, la maggior parte dei cantieri non ha applicato il salario minimo di 16mila taka (pari a circa 189 dollari).

Ma il punto rimane quello più terribile, oltre all’inquinamento ambientale. Questo lavoro di smantellamento espone gli operai a molti pericoli: si devono maneggiare materiali tossici come petrolio, carburante, vernici, amianto e liquami. Per diversi decenni, le organizzazioni ambientaliste e umanitarie e i sindacati hanno cercato invano di ottenere l’accesso ai cantieri, ma, per esempio, il Bangladesh shipbreaking workers trade union forum (il forum sindacale dei lavoratori demolitori del Bangladesh) ha poca influenza e capacità negoziale.

A tutto ciò non è marginale il fatto che la maggior parte dei lavoratori del settore sono migranti impoveriti che non hanno altra scelta. Come spesso accade in situazioni analoghe, c’è un legame diretto tra la loro povertà e i rischi che sono disposti a correre. Si sa che è un lavoro pericoloso, ma lo fanno per sfamare le loro famiglie e per sopravvivere. Anche l’industria della demolizione navale continuerà in questo modo finché ci saranno lavoratori bisognosi come loro.

Non vuoi perdere le nostre notizie?

Leggi anche:

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin
Iscriviti alla newsletter settimanale
Seguici su Facebook