Quelle relazioni pericolose tra petrolio, clima e cibo

La lista dei danni compiuti dall'uomo nei confronti il pianeta è drammaticamente lunga. Libri interi non basterebbero per descrivere nei dettagli le ferite che stiamo infliggendo a noi stessi: il surriscaldamento climatico, l'acidificazione degli oceani, il buco dell'ozono (un problema arginato, ma non scomparso), le guerre per l'accesso all'acqua dolce, l'uso perverso del suolo (un esempio su tutti: la cementificazione continua), la perdita della biodiversità... e potremmo continuare

La lista dei danni compiuti dall’uomo nei confronti il pianeta è drammaticamente lunga. Libri interi non basterebbero per descrivere nei dettagli le ferite che stiamo infliggendo a noi stessi: il surriscaldamento climatico, l’acidificazione degli oceani, il buco dell’ozono (un problema arginato, ma non scomparso), le guerre per l’accesso all’acqua dolce, l’uso perverso del suolo (un esempio su tutti: la cementificazione continua), la perdita della biodiversità… e potremmo continuare. Come abbiamo fatto ad arrivare fin qui?

Uno dei tanti fattori “antropogenerati” del cambiamento climatico, a volte sottovalutato, è il consumo di petrolio. La nostra dipendenza dall’oro nero ha delle ripercussioni enormi sul clima e, non di meno, sulla nostra alimentazione, come ha magistralmente spiegato ieri il noto meteorologo e climatologo Luca Mercalli alla V edizione del Festival Vegetariano di Gorizia.

Chi mangia vegetariano e chi mangia petrolio

Quali sono dunque le relazioni tra petrolio, clima e cibo? In passato il nesso era ben conosciuto: le piogge scarse portavano in breve tempo alla siccità e all’alterazione del raccolto. Il clima, quindi, aveva una forte influenza sull’agricolutura. Oggi la relazione sembra essersi invertita: è l’agricoltura che influenza il clima, spesso in modo irreparabile. E lo fa in tre modi diversi: primo, con la deforestazione (altrimenti dove fare le piantagioni di foraggio?); secondo, con la produzione di metano dagli allevamenti bovini e dai fanghi delle risaie; terzo, con la combustione di petrolio “necessaria” per i macchinari agricoli.

Più precisamente, quanto petrolio ci serve per mangiare? Se tutti sappiamo fin dalle scuole elementari quanti litri di acqua servono per “fare” una bistecca o un paio di jeans, spesso ignoriamo che la quantità di petrolio necessaria è altrettanto spaventosa. Solo un esempio: chi compra un chilo di carne di vitello dovrebbe sapere che, oltre a un pezzo di cadavere animale, si mangia anche i sette litri di petrolio utilizzati per produrre la bistecca. L’alimentazione odierna è diventata mostruosamente “energivora”.

Quali conseguenze comporta l’uso di tutto questo petrolio nella la produzione alimentare? Il danno è duplice. Prima di tutto, perché non è una risorsa infinita. Anzi, ormai ne sono rimaste solo le riserve a grandi profondità. Il costo sempre maggiore dell’estrazione si ripercuote sui costi dell’agricoltura e dell’allevamento. Non si può nascondere che il petrolio oggi sia molto più costoso di un tempo: basti pensare che un barile di greggio costa cinque o sei volte quanto costava appena quindici anni fa. Il secondo danno è il costo ambientale: un regime alimentare come quello attuale genera, a causa del consumo di petrolio, un inquinamento di enorme portata. Per questo, come sottolineato dal professor Mercalli al Festival Vegetariano, tutti dovrebbero ridurre il proprio consumo di carne. Mettere un freno all’allevamento è assolutamente indispensabile per fermare il cambiamento climatico. Lo affermano ormai anche importanti studi internazionali. Chi segue una dieta vegetariana, ad esempio, produce la metà delle emissioni di anidride carbonica per la propria alimentazione rispetto a chi mangia molta carne.

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Un presente molto caldo, un futuro infernale

Il cambiamento climatico non è una vuota minaccia, né una tesi lontana dalla realtà. È qui, ora. E la nostra agricoltura lo sa bene. Sono tanti i campanelli d’allarme e li conosciamo: l’aumento della CO2 in atmosfera, la crescita della temperatura media terrestre nell’ultimo secolo, la drastica riduzione annua dei giorni di gelo. I ghiacciai arretrano e poi scompaiono, l’estate arriva prima. E l’agricoltura? Con le acque di fusione ad aprile, ce ne facciamo poco. Poi arriva giugno, l’estate, il caldo… e di acqua non ce n’è più. E i raccolti bruciano, come nella calda estate del 2003. Ce la ricordiamo tutti.

Se il presente ci spaventa (o ci dovrebbe spaventare), il futuro è un incubo che si potrebbe presto realizzare. Di nuovo, non è un’ipotesi fatalista di qualche indovino, ma il risultato di approfondite ricerche scientifiche. Le previsioni dei climatologi ci mostrano un bivio: possiamo continuare sulla strada percorsa fino a oggi, bruciando petrolio per nutrirci ogni giorno di carne, e giungere alla fine del secolo a un aumento di cinque gradi della temperatura terrestre, vale a dire una catastrofe climatica; oppure possiamo prendere coscienza della tragedia imminente e ridurre i nostri consumi energetici, augurandoci che il surriscaldamento globale si “limiti” a due soli gradi in più.

Altrimenti? Pensiamo al bacino del Mediterraneo: se l’Europa sarà caldissima nel giro di alcuni decenni, il Nord Africa è già ben avviato su questa strada. Come accoglieremo le decine di migliaia di profughi climatici in fuga dall’inaridimento delle loro terre? E se i ghiacci si scioglieranno a ritmo forsennato, come si difenderanno le popolazioni costiere dall’innalzamento del livello del mare? Sono questioni aperte da decenni, ma nessuno – all’infuori della comunità scientifica – sembra aver preso sul serio questa minaccia. Ai “piani alti” della politica internazionale si pensa sempre prima agli interessi industriali del momento e poi al benessere delle prossime generazioni.

Noi, nel nostro piccolo, possiamo cominciare dalle azioni più semplici: ridurre gli sprechi, fare un uso razionale dell’energia (meglio se rinnovabile), combattere contro la cementificazione. E naturalmente seguire un’alimentazione sana sia per noi, sia per il pianeta.

Lorenzo Alberini

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