4 Alternative possibili al culto del PIL

E se il P.I.L non fosse l'unico strumento con il quale misurare la temperatura della società?

Il sospetto aleggiava nell’aria da tempo. Che il sistema di crescita economica sperimentato a partire dal dopoguerra da una manciata di Paesi situati nell’emisfero Nord del pianeta fosse insostenibile, era già chiaro a numerosi economisti nei lungimiranti Anni Settanta. C’è voluto l’arrivo di un nuovo Milennio, le crisi petrolifere, quelle finanziarie e il caos climatico per prendere seriamente in considerazione quella “diceria dell’untore” a cui nessuno voleva dar ascolto.

Che il consumo illimitato di risorse naturali si sarebbe scontrato con la limitata capacità della Natura di assorbirne i contraccolpi, stava scritto in qualche legge fisica che abbiamo consapevolmente ignorato.

Dopo il clamore delle prime scomode verità si è passati a un atteggiamento più pragmatico: green economy, energie rinnovabili, Co2 e Kyoto sono diventate parole da caffè al bar. Nuove, ma ancora inserite nel ring di una logica consumata. Quella del P.I.L., il Prodotto Interno Lordo, il sistema di calcolo per il quale più beni si producono, maggiore è il livello di benessere di una società.

Per rimanere in casa, greenMe.it è solo uno dei soggetti che ogni giorno porta all’attenzione di migliaia di persone piccole e gratificanti soluzioni che non prevedono la produzione di qualcosa, ma il riutilizzo, il riciclo, il baratto, lo scambio di ciò che esiste già. Dispositivi economici che non vengono conteggiati dal P.I.L. ma che parimenti contribuiscono al benessere civile.

E se il P.I.L non fosse l’unico strumento con il quale misurare la temperatura della società? Treehugger propone una sintesi delle più importanti alternative oggi in circolazione.

Economia della decrescita

Non si tratta di eresia ma di uno dei pensieri più ricorrenti nella testa di economisti, antropologi e sociologi. Un vero incubo per governi, banche e borse che vedono nero ogni volta che i numeri si avvicinano allo zero. Cosa significherebbe vivere nel rispetto dei limiti ecologici vincolando l’espansione economica a ciò che è “giusto” e “sostenibile”? Tornare ai tempi degli aratri e delle biciclette? No. Solo recuperare il valore delle cose e applicare un sistema di pensiero fondato sulla sobrietà e sulla moderazione dei consumi. A questo proposito, un celebre economista come Peter Victor ha recentemente pubblicato “Managing without grouth” (acquistabile su Amazon) un libro nel quale suggerisce come una buona progettazione della società potrebbe consentire di vivere in maniera “capitalistica” pur senza crescita economica. Paradossi? Il network delle Transition Town non solo ipotizza uno sviluppo in questa direzione ma cerca anche di metterlo in pratica.

Economia della felicita’

Nessuno ha mai messo in dubbio che il P.I.L. fosse un corretto strumento di analisi. Il problema è sorto quando ha cominciato a essere usato anche per identificare il livello di progresso e felicità di una società. Secondo questo abbinamento, in occasione di una catastrofe ambientale il benessere collettivo aumenta perché cresce la produzione di strumenti ad hoc e le spese per le cure mediche delle persone. Ma se a fornire le cure a un genitore malato è una figlia e non il servizio sanitario nazionale, il P.I.L. non registra questo dato, che quindi non è inscritto tra i sintomi di benessere.

Cosa si intende dunque per crescita? Cosa distingue la “buona” dalla “cattiva” crescita? È possibile misurare il livello di buon vivere di un Paese attraverso altri sistemi di metriche? Ci sono governi come quello inglese che hanno attivato task force per ripensare il proprio modo di misurare il progresso. Il Bhutan per esempio ha già messo a regime il calcolo della propria Felicità Interna Lorda. La Fondazione Happy Planet Index per esempio ha attivato un sistema di ricerca che individua parametri internazionali per decifrare il livello di felicità umana e di sostenibilità ecologica.

Economia sistemica e crescita “verde”

Il pensiero sistemico o biomimetico si basa sull’imitazione del sistema naturale: lì, ogni scarto è risorsa per la produzione di qualcos’altro. Nulla viene sprecato, distrutto o abbandonato per marcire o diventare scoria. Allo stesso modo ci si domanda sempre più spesso se un nuovo sistema economico non possa essere fondato su un principio di flussi continui di materia, energia e informazioni tra i soggetti che intervengono. Ciò significa ridefinire completamente il sistema di approvvigionamento e quello di smaltimento, ma a fronte di un risultato garantito da millenni di sopravvivenza della natura. In un certo senso, l’incentivazione di circuiti economici locali rappresenta un primo step attuativo. Ovvio che non può bastare e soprattutto deve integrarsi con flussi globali altrettanto importanti, ma è sufficiente per portare all’attenzione dei cittadini una nuova sfida basata su un modo di accedere e di consumare i beni in maniera differente.

Economia della pienezza e della condivisione

In un sistema che, mettendo in evidenza le sue crepe, crea disoccupazione e scontento, una soluzione può essere trovata nell’assimilazione di un nuovo modello di accesso ai beni e al tempo: fondato sulla valorizzazione del tempo libero, sull’autoproduzione, sulla ricerca dell’autosufficienza alimentare, sull’uso di infrastrutture digitali veloci e su sistemi di condivisione di beni e servizi. Se ne guadagnerebbe in serenità, in benessere e in qualità della vita.

In questo senso, numerose sono le azioni dal basso intervenute negli ultimi anni: dagli orti urbani al car pooling, dalle scuole di autoproduzione al co-housing . Testimoniano una reazione quasi naturale da parte delle persone alla condizione di impotenza a cui il sistema delle merci ci ha condotto. Evidenziano soprattutto una progressiva tendenza dell’uomo a dare valore alle relazioni piuttosto che ai beni. Juliet Schor, economista americana, l’ha definita “Plenitude Economy” cioè economia della pienezza: dove il sentimento di gratificazione umana si sostituisce a quello fornito dall’accumulo delle merci.

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